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martedì 29 aprile 2014

Le sette lettere dell'Apocalisse (parte II): la chiesa di Smirne



L'Apostolo Giovanni, dopo essere stato rapito nello Spirito ed aver visto il Signore Gesù nella gloria, inizia a scrivere sotto dettatura le lettere da consegnare alle sette comunità dell'Asia minore. Prima scrive alla chiesa di Efeso, e poi scrive alla chiesa di Smirne.

All'angelo della chiesa di Smirne scrivi:
Queste cose dice il primo e l'ultimo, che fu morto e tornò in vita: "Io conosco la tua tribolazione, la tua povertà (tuttavia sei ricco) e le calunnie lanciate da quelli che dicono di essere Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana. Non temere quello che avrai da soffrire; ecco, il diavolo sta per cacciare alcuni di voi in prigione, per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e io ti darò la corona della vita. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. Chi vince non sarà colpito dalla morte seconda".
Apocalisse 2:8-11

Questa seconda lettera mantiene lo stesso schema della precedente. Gesù si presenta ancora una volta in modo molto particolare, in questo caso come "il primo e l'ultimo, che fu morto e tornò in vita", al pari della presentazione che fece a Giovanni poco prima (1:17,18). 

Alla chiesa di Efeso invece si era appena presentato come "colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro", ossia esattamente come lo aveva visto Giovanni (1:12-16). 

L'immagine dei candelabri e delle sette stelle rappresenta il governo di Cristo sulla Chiesa, mentre quella della morte e resurrezione parla dell'espiazione di Cristo attraverso la quale Egli ha riscattato i santi a caro prezzo (1 Cor 6:20/7:23). Ma la morte e resurrezione evidenzia anche la Sua autorità sulla morte, elemento molto importante per questa chiesa, come vedremo a breve. 

Il riconoscimento iniziale riguarda proprio la tribolazione, la povertà e le calunnie subite da questa chiesa. Il termine "tribolazione" è reso in greco con thlipsis, che indica anche una vera e propria persecuzione. Questa parola è presente infatti anche nel libro degli Atti, dove è tradotta così:

Atti 11:19 Quelli che erano stati dispersi per la persecuzione (= 
thlipsis) avvenuta a causa di Stefano, andarono sino in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia, annunciando la Parola solo ai Giudei, e a nessun altro.

La persecuzione avvenuta a causa di Stefano, il primo martire, aveva causato una dispersione dei credenti che iniziarono a predicare il vangelo ai Giudei presenti in molti territori diversi. I cristiani di questa comunità però avevano vissuto (e stavano ancora vivendo) una persecuzione alla quale non potevano sottrarsi. Diventa rilevante a questo proposito anche il nome "Smirne" che, derivante dal greco antico, significa "mirra". Questo nome probabilmente è stato scelto a causa dell'abbondanza di questo arbusto nella località dove è stata fondata la città. Nella Bibbia la mirra simboleggia l'unzione dei re e successivamente di Cristo (è un componente per la produzione dell'olio), oltre che la morte e resurrezione del Signore, per il fatto che veniva utilizzata nella procedura di imbalsamazione. Il dono della mirra da parte dei Magi a Cristo appena nato richiama quindi entrambe queste realtà del Suo destino.

La città di Smirne era stata rifondata da Alessandro Magno nel 333 a.C. dopo la distruzione causata dai persiani nei secoli precedenti, diventando infine romana nel 133 a.C. I suoi abitanti avevano accettato di buon grado la dominazione di Roma e si erano dimostrati ferventi sostenitori del culto dell'imperatore. Il più famoso discepolo di Giovanni, Policarpo, nacque in questa stessa città intorno al 69 d.C. e trovò la morte come martire circa sessant'anni dopo la redazione dell'Apocalisse, quando fu condannato al rogo all'età di 86 anni per aver rifiutato di adorare Cesare. 

Il Signore dunque in questa lettera riconosce la persecuzione sofferta dalla chiesa, ma anche la sua povertà materiale (ptōcheia significa proprio povertà, indigenza), e le calunnie lanciate dai falsi fratelli. Come se non bastasse la persecuzione sofferta infatti, i credenti di Smirne erano osteggiati pure da coloro che dicono di essere Giudei e non lo sono. Gli Efesini misero alla prova quelli che si chiamano apostoli ma non lo sono, e i credenti di Smirne dovettero affrontare quelli che Cristo definisce come una sinagoga di Satana. Probabilmente il riferimento va ai Giudei che si alleavano ai pagani per mettere a morte i cristiani rendendosi quindi veri e propri strumenti di Satana. Questi non vengono considerati dal Signore veri Giudei, in quanto anche se nelle loro vene scorre questo sangue etnico, in realtà non appartengono al residuo eletto per grazia (Romani 11:5), colmando la misura dei loro padri, come afferma Gesù stesso nel vangelo di Matteo:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti e dite: "Se fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nello spargere il sangue dei profeti!" In tal modo voi testimoniate contro voi stessi, di essere figli di coloro che uccisero i profeti. E colmate pure la misura dei vostri padri! Serpenti, razza di vipere, come scamperete al giudizio della geenna? Perciò ecco, io vi mando dei profeti, dei saggi e degli scribi; di questi, alcuni ne ucciderete e metterete in croce; altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città, affinché ricada su di voi tutto il sangue giusto sparso sulla terra, dal sangue del giusto Abele, fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che voi uccideste fra il tempio e l'altare. Io vi dico in verità che tutto ciò ricadrà su questa generazione.
Matteo 23:29-36 

La data di redazione di questo vangelo è abbastanza controversa tra gli studiosi, ma sono tutti concordi sul fatto che deve essere sicuramente precedente al 100 d.C. in quanto in questo periodo il vangelo era già conosciuto dall'autore della Didaché e successivamente anche da Ignazio di Antiochia che nel 107-110 d.C. mostra di averlo letto grazie alla citazione che include nella sua lettera agli smirnesi. L'autore del vangelo di Matteo dunque scrive questa forte condanna di Gesù in un tempo che precede l'Apocalisse di Giovanni, che nel brano in questione sembra riprendere questo stesso tema per confermarlo e portarlo a compimento. Il Cristo di Matteo dunque profetizza l'arrivo di nuovi profeti, saggi e dottori, che saranno perseguitati proprio dai Giudei ipocriti che agendo in questo modo attireranno a sé il giudizio di Dio per tutto il sangue giusto sparso sulla terra. Tra questi profeti, saggi e dottori vi sono sicuramente anche i credenti di Smirne, che oltre a soffrire per le persecuzioni pagane soffrono anche a causa loro, a causa cioè di coloro che dicono di essere Giudei ma non lo sono, coloro verso i quali si è sempre scagliato anche il Gesù dei vangeli. Essi vengono definiti come una sinagoga di Satana, ma sempre in Matteo veniva associato il loro proselitismo alla trasformazione delle persone in "figli della geenna" (Mt 23:15), ossia in senso simbolico persone destinate all'inferno.

Dopo questa considerazione (io conosco la tua tribolazione, povertà e le calunnie subite), il Signore continua con una rassicurazione (non temere quello che avrai da soffrire), preannunciando un tempo di prigionia per alcuni di loro e una nuova persecuzione per dieci giorni. Questo tempo può essere letterale, ma potrebbe anche simboleggiare un periodo indefinito ma breve. 


Successivamente, vi è la promessa del premio. Nella lettera precedente, il Signore promette a chi vince l'albero della vita che è nel paradiso di Dio. La sfida degli efesini era tornare al primo amore per il Signore ed il premio era la vita eterna alla presenza di Dio. La sfida degli smirnesi però è differente, e riguarda la sopportazione della persecuzione, della sofferenza e delle calunnie. A loro dunque viene promessa la corona della vita. Come abbiamo già visto, a loro Cristo si è presentato come Colui che fu morto e tornò in vita, ossia come Colui che ha potere sulla morte, e proprio per questo il premio che offre è quello della corona della vita. La Scrittura presenta come premio anche la corona di giustizia (2 Tim 4:8) e la corona di gloria ( 1 Pt 5:4), ma ai credenti di questa comunità che soffrivano la persecuzione e che avrebbero affrontato il martirio, Gesù offre la corona di vita, degno premio per chi ha perso la propria vita per amore del Signore. Fedeli fino alla morte per avere la corona della vita. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: l'esortazione rivolta ai lettori è quella di porre attenzione alle lettere rivolte a queste sette chiese, rimarcando il significato che esse hanno anche oltre i diretti destinatari. 

Le ultime parole dedicate a questa comunità riguardano la promessa di non passare per la morte seconda per tutti coloro che vincono. Da una parte può essere una sottolineatura del premio della corona di vita con altre parole, dall'altra però rimanda anche alla morte seconda che sarà ripresa più volte durante il libro dell'Apocalisse:

Ap 20:6 Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la morte seconda, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui quei mille anni.

Ap 20:14 Poi la morte e l'Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco.

Ap 21:8 Ma per i codardi, gl'increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda».  
CONSIDERAZIONI

Come visto nello studio introduttivo l'Apocalisse in genere, e quindi anche questo brano specifico, possono essere interpretati secondo l'ottica preterista, storicista, idealista o futurista. Nell'ordine, significa cioè che questa lettera può essere considerata come esclusiva della chiesa di Smirne del I secolo, può rappresentare l'intera Chiesa cristiana nel primo periodo patristico (100 - 312 d.C.), oppure può essere svincolata da un contesto storico particolare ed essere valida genericamente per tutte le comunità che rispondono a queste caratteristiche. In linea di massima la prospettiva futurista applica ad un tempo futuro soltanto i capitoli dell'Apocalisse successivi alle sette lettere che ne vengono escluse essendo ricondotte comunque ad un contesto del I secolo. Alcuni contemplano tutte queste possibilità contemporaneamente, senza che l'una escluda per forza l'altra. In accordo con quanto detto in riferimento alla prima delle sette lettere, personalmente penso sia corretto ritenere questo brano come indirizzato alla chiesa di Smirne del I secolo e successivamente ai credenti di ogni epoca, esattamente come per ogni altro brano della Scrittura e per tutte le altre lettere del Nuovo Testamento. In questo caso specifico tuttavia trovo anche interessante il fatto che le caratteristiche della comunità di Smirne siano così simili a quelli delle Chiesa dei primi secoli: una chiesa perseguitata dalla società e osteggiata dai falsi apostoli e dai falsi profeti, che si ritrova quindi a combattere tanto all'esterno quanto all'interno. Essendo questi versetti all'interno del canone biblico comunque, è garantita la loro validità per l'istruzione e l'edificazione dei cristiani di qualsiasi periodo e contesto, accomunati dall'attesa della beata speranza e l'apparizione della gloria del grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù

martedì 22 aprile 2014

Ogni scriba discepolo del Regno è simile...


Matteo 13:1,2 In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva. 

Il tredicesimo capitolo del vangelo secondo Matteo inizia con queste parole. La narrazione si apre con Gesù che esce di casa e si reca verso il mare. La folla lo raggiunge e Lui si mette su una barca vicina alla riva per insegnare molte cosa in parabole (v.3). 


La prima parabola descrive un seminatore che sparge il seme su vari tipi di terreno, ma solo quello caduto sulla buona terra riesce ad attecchire e portare frutto. 

Matteo 13:10,11 Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato.

Visto l'interesse dei discepoli, Gesù inizia quindi a spiegare il significato della parabola: molte persone odono la parola del Regno, ma alcuni non la comprendono e il diavolo la porta via, altri la ricevono con gioia ma nel momento della tribolazione vengono sviati, altri ancora la soffocano con i desideri mondani e l'inganno delle ricchezze. Solo alcuni dunque ricevono la parola, la ritengono e la fanno fruttare: coloro che hanno ricevuto il seme in terra buona. 

Il Signore però continua ad insegnare, proponendo la parabola delle zizzanie e del buon seme. Il Regno dei cieli dunque viene paragonato ad un uomo che aveva seminato buon seme nel suo campo, ma di notte il suo nemico viene di nascosto per seminare altre piante, infestanti ed intossicanti. Ormai il danno è fatto e mentre i vegetali stanno crescendo non si può fare più nulla: bisogna attendere che arrivino a maturazione per mieterli insieme e separarli successivamente.

Il Regno poi viene assomigliato anche ad un piccolo granello di senape, che al tempo opportuno diventa un albero gigantesco. Ma anche al lievito usato da una donna per far fermentare la pasta.

I discepoli a questo punto chiedono ancora spiegazioni, e Gesù spiega meglio il significato della parabola delle zizzanie.

Poi gli dice che il Regno dei cieli è anche simile a un tesoro nascosto in un campo, che un uomo compra con tutti i suoi averi pur di possederlo; e ad un mercante di perle che, trovata una perla di gran valore, decide di comprarla investendo in modo simile tutto quello che ha. Infine, Egli presenta il Regno come una rete da pesca che raccoglie pesci di ogni tipo, pesci che il pescatore a fine giornata deve dividere per separando quelli buoni da quelli che non valgono nulla.  


A questo punto, il Signore rivolge una domanda ai discepoli, o forse alla folla (v.51): "Avete capito tutte queste cose?

Essi risposero: "Sì".


Allora disse loro: «Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie».
Matteo 13:52 

Questa sintesi finale sembra dare un'ulteriore significato a questo prezioso capitolo. In questo contesto infatti, il Signore ha descritto il Regno di Dio in molti modi diversi per far capire ai discepoli le sue caratteristiche fondamentali. Il Regno viene presentato a tutti, ma pochi lo accolgono. Molti infatti crescono nella malvagità coltivata da Satana, assomigliata alle piante infestanti ed intossicanti, e solo alla fine dei tempi verrà il giudizio. Il Regno si è presentato nel mondo con la nascita stessa di Cristo, un piccolo neonato, ma è destinato a diventare il più grande Regno mai visto, e a stabilire la sua influenza su tutto il mondo (Salmo 2). Un piccolo elemento capace di crescere a dismisura, così come il lievito fa fermentare la pasta. Chi si imbatte nel Regno, poi, non può far altri che lasciare tutto quello che ha, per venirne incluso. Esattamente come i discepoli hanno lasciato i loro lavori e le loro famiglie per seguire il Signore.

Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del Regno è come un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. 


Gli scribi del tempo di Gesù non erano semplici copisti ma profondi conoscitori delle Scritture, incaricati anche di leggerle, tradurle ed interpretarle per il popolo. Essi erano quasi in competizione con i sacerdoti, si ritenevano addirittura ideali eredi dei profeti.

La frase di Gesù li inserisce quindi in una figura retorica a chiasmo, ossia in un incrocio immaginario fra due coppie di parole secondo uno schema sintattico di tipo A, B, B, A che possiamo schematizzare in questo modo:

(a) scriba                            (b') cose nuove


(b) discepolo del Regno         (a') cose vecchie

La struttura sintattica della frase di Gesù associa allo scriba le cose vecchie, e al discepolo del Regno le cose nuove. Queste coppie di elementi però non si pongono in antitesi ma vengono presentate come un'evoluzione. 

"Infatti, chi è interprete professionale della Torah, se accetta di entrare nella logica del Regno proclamata sinora in parole e azioni da Gesù, ha un'unica certezza: nel suo tesoro (= la base della propria identità culturale) il nuovo che scopre non è alternativo, ma in sviluppo, senza separazioni dalle proprie radici."[1]
Lo scriba che abbraccia l'insegnamento di Gesù non è chiamato a rinnegare la sua radice ebraica ma piuttosto a svilupparla secondo la nuova logica del Regno di Dio presentata da Gesù. Lo scriba è un esegeta della Legge e il suo compito è quello di interpretarla. Gesù invece è un esegeta della vita: ogni elemento del creato gli parla di Dio, ed ogni aspetto della creazione gli è utile per spiegare l'identità e le intenzioni del Padre. Cristo è lo Spirito delle Scritture: adempie numerose profezie bibliche ma non è schiavo delle lettere e della carta. Egli si presenta e presenta il Padre attraverso le Scritture ma anche e soprattutto attraverso il Suo stile di vita, i Suoi insegnamenti che nascono dall'osservazione della natura, e i miracoli che testimoniano della volontà di soccorrere e guarire l'uomo in un modo assolutamente pieno e completo. La tradizione ebraica e la Torah non sono quindi presentati come qualcosa da accantonare ma come un tesoro da continuare a custodire. Un tesoro però che non può essere composto solo da questi elementi. C'è qualcosa di nuovo da aggiungere, qualcosa di vibrante, di vivo: l'esperienza del Regno di Dio. Vivere la realtà del Regno in modo tradizionalistico, è impossibile. Il Regno è per sua natura vivo e in espansione. E' come un albero che cresce, del lievito che fermenta. Non può essere catalogato o contenuto. Non può essere neanche studiato, a causa della limitatezza della natura umana. Un giorno ha una certa conformazione, pensi quindi che quello sia il Regno, ma il giorno dopo si presenta già più grande, differente. Il Regno di Dio non è una realtà da studiare, ma da vivere. 

Se questo era vero per gli scribi ebrei del primo secolo, penso che possa essere vero anche per quelli del nostro tempo, e addirittura anche per i cristiani di ogni generazione. Facilmente la vita di fede si cristallizza in una sequenza di atti liturgici, e questo è tanto vero per gli ebrei quanto lo è per i cristiani. Nascere e crescere in un contesto cristiano porta a consolidare una serie di insegnamenti, valori morali e attitudini devozionali, ma per ogni persona arriva il momento in cui comprendere l'impossibilità di vivere con la fede degli altri. Spesso le denominazioni evangeliche pentecostali hanno l'apparenza di vivere le realtà dello Spirito, ma nessuno è immune dai pericoli dell'istituzionalizzazione. Quanto è facile che un atto di ubbidienza a Dio si trasformi in poco tempo in un'azione meccanica! Molti si reputano esperti conoscitori della Bibbia, ed alcuni effettivamente lo sono. Ma tra questi molto pochi vivono come discepoli del Regno dei cieli. Conciliare la presenza di cose vecchie e cose nuove nel proprio tesoro infatti può sembrare facile ma in realtà è incredibilmente difficile. Significa appoggiare la propria fede non su un'idea ma su Cristo stesso. Significa esercitare la propria elasticità mentale ed essere disposti a cambiare paradigmi. Significa essere fedeli alla propria coscienza radicata nelle Scritture fino in fondo, fino al punto da rinunciare al proprio ego nel momento in cui si realizza che una certa dottrina viene dalla tradizione umana e non dal testo biblico. Significa maturare nella propria identità, ma essere pronti alla crescita ed al cambiamento. Significa ascoltare la voce di Dio nelle Scritture, senza trarre da essa solamente dei comportamenti etici. Questa è la sfida che Gesù ha portato a tutti gli ebrei del tempo passato e presente. Ma è anche la sfida che ha portato a chi pensa di vivere come discepolo del Regno appoggiandosi invece nella comodità di una sistema tradizionalistico. 

Il grande elemento di diversità del cristianesimo delle origini rispetto alla più antica religione ebraica, era proprio la caratteristica di essere fondata tanto sul Gesù del passato, quanto sul Signore risorto e presente tra i suoi.
Alla tradizione dei detti di Gesù non basta, perciò, ricordarne le parole al passato, ma ha bisogno di ascoltarne le parole nel presente e per questo attualizza le parole ricevute.2 
Questa è stata la dinamica che ha portato alla redazione dei vangeli, ma penso che questa debba anche essere la dinamica della vita di fede quotidiana di ogni credente. Seguire Cristo infatti non significa ricordare le Sue parole al passato ma attualizzarle al presente, vivere secondo questi insegnamenti con la consapevolezza di camminare alla presenza di un Dio vivente e vero non solo nella celebrazione domenicale ma anche e soprattutto in ogni momento della nostra quotidianità. Aumentare la ricchezza del proprio tesoro aggiungendo cose nuove alle cose vecchie. Esattamente come lo scriba di cui parla Gesù. 


Note:
[1] cit. Parola&parole, nr 16, Credere fa vivere: il vangelo secondo Matteo e la fede quotidiana per tutti, Ernesto Borghi e Renzo Petraglio, periodico dell'Associazione Biblica della Svizzera Italiana, p. 91.
[2] cit. Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Rafael Aguirre Monasterio, Antonio Rodriguez Carmona, Ed. Paideia, p. 31.

lunedì 14 aprile 2014

Le sette lettere dell'Apocalisse (parte I): la chiesa di Efeso

Schema degli eventi dell'Apocalisse interpretati con un approccio futurista
L'apocalisse di Giovanni è l'unico libro di genere apocalittico incluso nel canone biblico. Sebbene la tradizione identifica il suo autore con l'Apostolo Giovanni, scrittore del relativo vangelo e delle tre lettere neotestamentarie, gli studiosi moderni associano questi scritti ad una redazione quasi corale legata in ogni caso alla scuola teologica giovannea. La data di redazione viene fatta risalire comunemente alla prima metà degli anni 90 del I secolo, durante il regno di Domiziano. Le circostanze, sono riportate all'inizio del libro stesso:

Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, ero nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di una tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea».
Apocalisse 1:9-11

I primi destinatari dunque furono queste sette chiese dell'Asia Minore che l'Apostolo Giovanni conosceva personalmente. A queste chiese, oltre che il libro nel suo insieme, vengono indirizzate in particolare anche sette lettere (una per chiesa) che troviamo nei capitoli 2 e 3. Il numero sette indica la perfezione e totalità, per questo sembra che le sette chiese rappresentino la totalità della Chiesa. Queste lettere seguono tutte uno stesso schema: un'intestazione, una presentazione dell'Autore, un riscontro dello stato della chiesa, delle esortazioni a cui seguono l'invito all'ascolto dello Spirito ed una promessa. Esse mostrano quindi differenti situazioni spirituali in diverse comunità, il cui significato è stato interpretato in modi differenti.

Gli approcci interpretativi all'Apocalisse infatti, sono principalmente quattro: quello preterista, storico, idealista e futurista. L'approccio preterista interpreta l'Apocalisse come una descrizione di eventi accaduti nel I secolo dopo Cristo. L'approccio storico considera la realizzazione di questi eventi nel corso dell'intera storia, dal primo secolo in poi. L'interpretazione idealista considera la descrizione come mitologica, svuotandola di un contesto storico per renderla adatta ad ogni tempo e luogo. Infine, la visione futurista condivide lo stesso approccio di quella preterista per i primi tre capitoli (dunque per le lettere alle sette chiese, viste come lettere dedicate alle comunità esistenti nel I secolo), ma interpreta gli eventi presentati dal terzo capitolo in poi come eventi futuri. 
Schema interpretativo delle sette lettere, approcciate con un modello interpretativo storicista
Io mi voltai per vedere chi mi stava parlando. Come mi fui voltato, vidi sette candelabri d'oro e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un figlio d'uomo, vestito con una veste lunga fino ai piedi e cinto di una cintura d'oro all'altezza del petto. Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il fragore di grandi acque. Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza. Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l'ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell'Ades. Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito, il mistero delle sette stelle che hai viste nella mia destra, e dei sette candelabri d'oro. Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese.
Apocalisse 1:12-20

Giovanni, voltandosi per vedere chi gli stava parlando, vede sette candelabri ed in mezzo a loro la figura di Gesù Cristo glorificato, con in mano sette stelle. Esse rappresentavano gli angeli delle sette chiese, ossia - visto il contesto - gli anziani responsabili delle rispettive comunità. I candelabri intorno a Lui invece, erano le sette chiese. 

Per riassumere dunque, il Signore si presenta a Giovanni rapito in Spirito. Inizialmente egli ne sente soltanto la voce, che gli dà l'incarico di scrivere quello che sta per vedere per mandarlo alle sette chiese dell'Asia minore, mentre in seguito - dopo essersi girato - vede con i propri occhi Cristo glorificato in mezzo ai sette candelabri (alle sette chiese) con i mano sette stelle (i sette responsabili delle rispettive comunità). Il Signore dopo aver confermato la Sua identità, ed aver rassicurato l'Apostolo Giovanni, inizia a dettargli la prima delle sette lettere, dedicata alla chiesa di Efeso:

"Io conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza; so che non puoi sopportare i malvagi e hai messo alla prova quelli che si chiamano apostoli ma non lo sono e che li hai trovati bugiardi. So che hai costanza, hai sopportato molte cose per amor del mio nome e non ti sei stancato. Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi. Tuttavia hai questo, che detesti le opere dei Nicolaiti, che anch'io detesto. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. A chi vince io darò da mangiare dell'albero della vita, che è nel paradiso di Dio".
Apocalisse 2:2-7 

La chiesa di Efeso è stata molto probabilmente fondata da Priscilla e Aquila (Atti 18:26), e curata dall'Apostolo Paolo per circa due anni e tre mesi (Atti 19) durante il suo terzo viaggio missionario. Intorno al 60-62 d.C., Paolo scrisse a questa comunità la celebre lettera agli Efesini inclusa nel canone neotestamentario. Da questa lettera si evince l'immagine di una comunità sana, il cui amore per i santi e la cui fede era risaputa (Ef 1:15). Tra il 63 e il 67 d.C. però, Paolo esortò Timoteo1, suo "legittimo figlio nella fede", a "rimanere a Efeso per ordinare ad alcuni di non insegnare dottrine diverse" (1 Tim 1), probabilmente costruite sulla base di alcuni elementi del giudaismo. 
Intorno al 95 d.C. infine, il Signore stesso rivolge alla comunità le parole che abbiamo appena letto. Egli riconosce le sue opere, la sua fatica, la sua costanza, il discernimento nei confronti dei falsi apostoli. Quest'ultimo elemento mostra il successo del ministero di Paolo e di Timoteo nella cura e nell'educazione della comunità. Ma assieme a questi riconoscimenti, il Signore ha anche un rimprovero da fare: gli Efesini infatti avevano abbandonato il loro primo amore. Sicuramente lo avevano fatto negli ultimi anni, dopo la guida di Paolo e di Timoteo e durante il tempo in cui l'Apostolo Giovanni stesso era stato con loro. Il termine utilizzato è agapē, ed identifica proprio l'amore caritatevole cristiano, l'amore di Dio. In poco più di una trentina di anni, la chiesa aveva perso quell'amore per il quale prima era conosciuta in tutto il territorio dell'Asia minore. Era costante, laboriosa e pura nella dottrina, ma non aveva più il primo amore, la giusta causa di tutte queste attività, che senza di essa rimangono gravemente mancanti. Infatti, in questa condizione il Signore dà la possibilità di ravvedersi, ma avverte che senza ravvedimento Egli avrebbe dovuto rimuovere il candelabro: avrebbe dovuto rimuovere l'intera comunità. In tutto questo però, torna la lode per l'insofferenza verso i Nicolaiti. Nelle Scritture non abbiamo alcuna indicazione circa questa setta, ma troviamo delle indicazioni nell'opera più famosa di Ireneo di Lione: Adversus haereses. Ireneo (nato nel 130 d.C., morto nel 202 d.C.) fu discepolo di Policarpo di Smirne, a sua volta discepolo diretto dell'Apostolo Giovanni. Egli fu il primo a sviluppare una sintesi globale del cristianesimo e a contrastare lo gnosticismo, oltre alle molte altre eresie sorte in quel primo periodo. A questo proposito, Ireneo scrive:

"I Nicolaiti ebbero per maestro un certo Nicolao, uno dei sette diaconi ordinati dagli Apostoli (Atti 6:5). Vivono vergognosamente. Sono esattamente caratterizzati nell'Apocalisse di Giovanni in quanto insegnano che non si deve avere alcuno scrupolo nel fornicare o nel mangiare idolotiti.

(Contro le eresie, Ireneo di Lione, libro primo, parte seconda)

La loro dottrina quindi, viene fatta risalire a Nicola, proselito di Antiochia nominato come diacono dagli Apostoli. I Nicolaiti vengono nominati un'altra volta nella stessa Apocalisse, all'interno della lettera alla chiesa di Pergamo.

La lettera di Gesù Cristo alla chiesa di Efeso invece, termina in questo modo: 
"A chi vince io darò da mangiare dell'albero della vita, che è nel paradiso di Dio". L'esortazione di ravvedersi e tornare al primo amore è in vista della vita eterna, del frutto dell'albero della vita nel paradeisos, nel paradiso raffigurato come l'Eden della Genesi.

Considerazioni finali

Come indicato precedentemente, questa lettera - come l'intera Apocalisse - è stata interpretata in modi diversi. Per alcuni è una lettera indirizzata unicamente alla comunità di Efeso della fine del I secolo. Per altri (tra i quali gli stessi padri della Riforma) rappresenta lo stato dell'intera Chiesa del periodo apostolico (30 d.C. - 100 d.C.). Per alcuni è diretta in modo generico a tutte le comunità cristiane di ogni tempo che rientrano nella descrizione, e non mancano persone che proiettano anche queste lettere nel futuro, in eventuali nuove comunità che si dovrebbero formare prima dell'inizio degli eventi dell'Apocalisse.


Alcuni studiosi trovano un equilibrio accettando la coesistenza di (quasi) tutte queste interpretazioni, identificando nella chiesa di Efeso del primo secolo un primo destinatario, nell'intera Chiesa del I secolo un secondo destinatario, e nella Chiesa universale di ogni tempo un terzo, con particolare significato per le comunità che si trovano in effetti in questo stato.

Personalmente, credo che sia utile applicare a questi brani lo stesso criterio che si applica a tutte le altre lettere del Nuovo Testamento. Le parole delle lettere infatti, sono indirizzate in primo luogo alle relative comunità del tempo, ed in secondo luogo alla Chiesa universale di sempre, essendo incluse nel canone biblico e riconosciute come Parola di Dio. Partendo dal contesto letterario, storico e culturale, si può comprendere il vero significato del testo, che a questo punto può interpellare il lettore di oggi per rimuovere ciò che lo separa da una maggiore conoscenza di Dio.

Termino con questa indicazione dell'Apocalisse, un'indicazione incalzante che coinvolge ogni credente nel Signore Gesù Cristo.

Apocalisse 1:3 Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia e fanno tesoro delle cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino!


Note:
1. I padri della Chiesa, il Canone muratoriano (il più antico elenco di libri inclusi nel canone biblico neotestamentario) e moltissimi accademici, teologi e studiosi degli ultimi secoli attribuiscono la paternità della prima lettera a Timoteo all'Apostolo Paolo, così come indicato nella lettera stessa.
Altri studiosi la considerano invece una lettera pseudoepigrafica, scritta da un'altra persona tra la fine del I e l'inizio del II secolo. Di fatto il problema della paternità della lettera è un problema aperto. Il presente studio tuttavia si allinea con l'attribuzione paolina.

venerdì 4 aprile 2014

Guarigione di un indemoniato: considerazioni intertestuali

Giunti presso i discepoli, videro intorno a loro una gran folla e degli scribi che discutevano con loro. Subito tutta la gente, come vide Gesù, fu sorpresa e accorse a salutarlo. Egli domandò: «Di che cosa discutete con loro?» 
Uno della folla gli rispose: «Maestro, ho condotto da te mio figlio che ha uno spirito muto;  e, quando si impadronisce di lui, dovunque sia, lo fa cadere a terra; egli schiuma, stride i denti e rimane rigido. Ho detto ai tuoi discepoli che lo scacciassero, ma non hanno potuto». Gesù disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatelo qui da me». Glielo condussero; e come vide Gesù, subito lo spirito cominciò a contorcere il ragazzo con le convulsioni; e, caduto a terra, si rotolava schiumando. Gesù domandò al padre: «Da quanto tempo gli avviene questo?» Egli disse: «Dalla sua infanzia; e spesse volte lo ha gettato anche nel fuoco e nell'acqua per farlo perire; ma tu, se puoi fare qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». E Gesù: «Dici: "Se puoi!" Ogni cosa è possibile per chi crede». Subito il padre del bambino esclamò: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità». Gesù, vedendo che la folla accorreva, sgridò lo spirito immondo, dicendogli: «Spirito muto e sordo, io te lo comando, esci da lui e non rientrarvi più». Lo spirito, gridando e straziandolo forte, uscì; e il bambino rimase come morto, e quasi tutti dicevano: «È morto». Ma Gesù lo sollevò ed egli si alzò in piedi. Quando Gesù fu entrato in casa, i suoi discepoli gli domandarono in privato: «Perché non abbiamo potuto scacciarlo noi?» Egli disse loro: «Questa specie di spiriti non si può fare uscire in altro modo che con la preghiera [e il digiuno]».
Marco 9:14-29 

All'inizio del capitolo nove del vangelo secondo Marco, leggiamo che Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un alto monte, dove fu trasfigurato in loro presenza. Apparvero loro Elia con Mosé, e la voce del Padre che diceva dal cielo: "Questo è il mio diletto Figlio; ascoltatelo". Dopo che d'un tratto tutto questo scomparve, il Signore raccomandò loro di non raccontare a nessuno quello che avevano visto, mentre camminavano per tornare dagli altri discepoli. In questo punto inizia la narrazione del brano che abbiamo appena letto. Cristo, assieme a Pietro, Giovanni e Giacomo, raggiungendo gli altri discepoli vide che stavano discutendo con gli scribi.

Questa classe religiosa aveva il compito di trascrivere e custodire i testi sacri, ma con il tempo la loro autorità crebbe con l'incarico ulteriore di leggere, tradurre e interpretare per il popolo le Scritture stesse. Di fatto, essi erano in diretta competizione con i sacerdoti, ritenendosi ideali eredi dei profeti veterotestamentari. I discepoli dunque stavano discutendo con veri e propri teologi, e la folla assisteva interessata a questa discussione. Qual era l'argomento del confronto fra i discepoli di Cristo e gli scribi? E' Gesù stesso a chiederlo, e la risposta gli arriva dal diretto interessato: un padre che ha chiesto ai discepoli di guarire suo figlio, senza che essi ci riuscissero.
Gli scribi stavano discutendo con i discepoli di Gesù circa il loro fallimento. Era per loro un'eccellente occasione per screditare l'autorità e il ministero del Signore. In Mc 6:7-13 leggiamo le parole di Cristo quando diede ai dodici il potere sugli spiriti immondi. Il fallimento in questo senso era di riflesso un fallimento di Gesù stesso, nonostante tutti i miracoli fatti in precedenza.

Comprendendo il motivo della discussione, il Signore evita di prendere le difese dei suoi discepoli, anzi: li sgrida pubblicamente! Li taccia di incredulità e si fa portare il ragazzo indemoniato che appena vede Gesù da lontano inizia a manifestarsi. Cristo riprende anche l'incredulità del padre, proclama che "ogni cosa è possibile per chi crede" e scaccia lo spirito immondo, liberando e guarendo il ragazzo di fronte agli scribi e alla folla.

Appena i discepoli sono lontano dalle altre persone, soli con il Maestro, gli chiedono come mai non sono stati in grado a compiere anche questa liberazione e guarigione, visto che in passato avevano già scacciato molti demoni e guarito molti infermi (cfr. Mc 6:13). La risposta è che questa specie (in gr. genos: letteralmente traducibile con questa famiglia, nazione, tribù, questo tipo, questa diversità) non si può fare uscire se non con la preghiera, e, come aggiungono alcuni manoscritti, con il digiuno. Che significato hanno queste parole? Quale era il reale problema che ha impedito che i discepoli liberassero quel ragazzo come avevano già fatto numerose altre volte? Evidentemente ai discepoli mancava qualcosa e quel qualcosa era la preghiera (e possibilmente il digiuno). La vita di preghiera dei discepoli si era affievolita. Avevano da poco ricevuto potere (in gr. exousia: ossia forza, capacità, competenza, autorità delegata, giurisdizione) sopra gli spiriti impuri, ma l'esercizio di questo potere aveva fatto in modo di accrescere la sicurezza in sé stessi a scapito della dipendenza dalla preghiera e da Dio. Questo era il vero problema. I discepoli non dubitavano del potere che Gesù diede loro, tanto che nel momento del fallimento rimasero sorpresi, e probabilmente non riuscirono neanche a difendersi di fronte agli scribi che li accusavano. Non sapevano in cosa stavano sbagliando, altrimenti non lo avrebbero chiesto al Signore. La sicurezza nel potere ricevuto paradossalmente li aveva allontanati da Dio, mostrando l'abbaglio di una inesistente indipendenza. Il potere che conferisce Dio infatti non è mai un potere magico, un metodo sempre efficace per chissà quale astratta legge spirituale. Al contrario, questo potere è sempre legato ad una autorità delegata. L'autorità dei discepoli non era fine a sé stessa ma era delegata, veniva da Gesù. Non poteva essere praticata senza un allineamento con la volontà di Dio, una vicinanza in preghiera.
Cristo era salito con Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte, per dare loro una dimostrazione maggiore di intimità, per mostrare qualcosa in più circa la Sua identità. Mentre Gesù condivideva con loro l'approvazione ricevuta dal Padre, gli altri nove pensavano invece di non averne continuamente bisogno per poter fare miracoli.

In questo brano però, è possibile evidenziare un altro tema, ossia il tema della lotta con Satana e con le forze demoniache. Immediatamente dopo infatti, sempre al capitolo 9 del vangelo di Marco, dal versetto 30, il Signore preannuncia per la seconda volta la Sua passione. Questo elemento è di grande importanza, tanto che la versione di Luca (9:37-45), è completamente priva della spiegazione di Gesù ai discepoli circa la guarigione e il digiuno, soffermandosi invece direttamente su questo annuncio della Sua cattura. Questi avvisi scandiscono i vangeli come se fossero rintocchi di una campana che segnala l'orario, ora dopo ora. L'ora della sofferenza, l'ora della morte, l'ora dell'apparente vittoria di Satana si stava avvicinando! E questo "rintocco" viene anticipato da un momento di fallimento e confusione dei discepoli di fronte al potere del diavolo. Gesù ribadisce la Sua autorità scacciando il demone, ma la lotta contro il maligno viene mostrata come una lotta mai banale o scontata, una lotta che si può vincere solo con la fede che scaturisce da una intensa vita di preghiera. Accostiamoci ora alle versioni degli altri due vangeli sinottici.


Quando tornarono tra la folla, un 
uomo gli si avvicinò, gettandosi in ginocchio davanti a lui, e gli disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio, perché è lunatico e soffre molto; spesso, infatti, cade nel fuoco e spesso nell'acqua. L'ho condotto dai tuoi discepoli ma non l'hanno potuto guarire». Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatelo qui da me». Gesù sgridò il demonio e quello uscì dal ragazzo, che da quel momento fu guarito. Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: «Perché non l'abbiamo potuto cacciare noi?» Gesù rispose loro: «A causa della vostra poca fede; perché in verità io vi dico: se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: "Passa da qui a là", e passerà; e niente vi sarà impossibile. [Questa specie di demòni non esce se non per mezzo della preghiera e del digiuno».]
Matteo 17:14-21 


La versione di Matteo è più breve e presenta interessanti differenze. Laddove, in Marco, il padre del ragazzo descrive il suo problema come uno spirito muto, qui invece dice che è lunatico (in gr. selēniazomai). Questo termine viene utilizzato soltanto dall'evangelista Matteo ed ha un unica ulteriore ricorrenza in Mt 4:24, dove è scritto che "gli recarono [a Gesù] tutti i malati colpiti da varie infermità e da vari dolori, indemoniati, epilettici, paralitici; ed egli li guarì." Matteo dunque descrive un preciso problema e precisa anche che Gesù in passato lo aveva già risolto. I tre interventi del padre del ragazzo vengono incorporati in uno solo che riassume anche la sua indicazione circa la pericolosità di questa problematica ed il fatto che il ragazzo è caduto spesso nel fuoco e nell'acqua. A questo punto, la risposta di Gesù è quasi identica, tanto che sembra essere copiata dallo stesso vangelo di Marco. L'unica differenza sta nell'aggiunta del termine diastrephō, ossia distorta, corrotta, perversa. Se la risposta in Marco infatti riguardava una generazione incredula, o senza fede, in Matteo la generazione è ugualmente incredula ma anche perversa. L'evangelista non sottolinea soltanto la mancanza di fede dei discepoli, ma anche una distorsione di quest'ultima! Una distorsione che è coinvolta con il problema avuto dai discepoli, una distorsione legata alla loro mancanza di fede e di preghiera, al pari degli altri Giudei. Gesù si lamenta di una generazione incapace di conoscere Dio, di avere una genuina fede in Lui; una generazione che sostituisce la vera fede con una fede perversa, una fede nella Torah di Dio e non in Dio, nel proprio potere e non nel potere di Dio!
A questo punto, il Signore sgrida il demonio, libera e guarisce il ragazzo e velocemente la narrazione prosegue fino al momento in cui egli si trova solo con i discepoli che lo interrogano. La risposta però è differente da quella di Marco, che aggiunta alla fine del brano solo in alcuni manoscritti. Questa risposta riprende quindi necessariamente un'altra fonte rispetto a quella di Marco ed evidenzia non più la mancanza di preghiera ma la mancanza di fede. Collegandosi all'accusa precedente di Cristo di una generazione senza fede, l'evangelista torna su questo tema, evidenziando la mancanza di fede dei discepoli. Evidentemente, la mancanza di una fede genuina, capace di spostare una montagna anche se presente in poca quantità come un piccolo granello di senape. Vi è quindi una grande contrapposizione tra la generazione senza fede e distorta e invece la fede genuina in Dio per la quale nulla è impossibile. Ora la versione di Luca.


Il giorno seguente, quando essi scesero dal monte, una gran folla andò incontro a Gesù. Un uomo dalla folla gridò: «Maestro, ti prego, volgi lo sguardo a mio figlio: è l'unico che io abbia. Ecco, uno spirito si impadronisce di lui, e subito egli grida; e lo spirito lo contorce, facendolo schiumare, e a fatica si allontana da lui, dopo averlo straziato. Ho pregato i tuoi discepoli di scacciarlo, ma non hanno potuto». Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi e vi sopporterò? Porta qui tuo figlio». Mentre il ragazzo si avvicinava, il demonio lo gettò per terra e cominciò a contorcerlo con le convulsioni; ma Gesù sgridò lo spirito immondo, guarì il ragazzo e lo rese a suo padre. E tutti rimasero sbalorditi della grandezza di Dio. Mentre tutti si meravigliavano di tutte le cose che Gesù faceva, egli disse ai suoi discepoli: «Voi, tenete bene in mente queste parole: il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Ma essi non capivano queste parole che erano per loro velate, così da risultare incomprensibili, e temevano di interrogarlo su quanto aveva detto.
Luca 9:37-45 

Anche in questo caso gli interventi del padre del ragazzo sono ridotti ad uno solo, simile ma differente dagli altri due. La risposta di Gesù è vicinissima a quella di Matteo ma apparentemente migliorata, più scorrevole. Anche Luca presenta il termine "perversa", oltre che "incredula".
Dopo la liberazione e guarigione però, vi è la vera differenza rispetto alla altre due versioni: come anticipato, Luca omette completamente la domanda dei discepoli e la risposta di Gesù circa il loro fallimento ed inserisce invece direttamente l'annuncio della sua imminente cattura. E' come se questo evangelista non volesse porre l'accento sulla necessità di preghiera o di fede dei discepoli, ma piuttosto sulla potenza di Cristo a fronte dell'impotenza di quella generazione, e da questa dimostrazione proiettare lo sguardo verso la Sua passione imminente. Questa prospettiva viene confermata anche dall'inizio del brano, quando la folla va incontro a Gesù, piuttosto che essere intorno ai discepoli che discutevano con gli scribi. Se anche Matteo infatti omette questo scenario, egli però sobriamente descrive un solo uomo (il padre del ragazzo) che si avvicinò ed inginocchiò davanti al Signore. Luca invece inizia questa narrazione con l'intera folla che va incontro a Gesù. Un uomo grida a Lui di aiutare suo figlio, il Signore si lamenta dell'incredulità e perversione di quella generazione, guarisce e libera miracolosamente il figlio e poi prepara i discepoli alla Sua cattura, sempre più vicina. Il soggetto non è più la lacuna dei discepoli, ma la vittoria di Cristo.

CONSIDERAZIONI FINALI

 Accostare i rispettivi brani dei vangeli sinottici è sempre un esercizio utile, che chiarisce il centro del messaggio e le differenti sfumature che gli evangelisti hanno voluto dare, rivolgendosi a lettori differenti ed utilizzando diverse tradizioni e fonti.

Il vangelo di Marco, a cui gli studi attuali conferiscono una priorità, ossia una precedenza di redazione, pone l'accento sulla credibilità dei discepoli e sulla loro autorità, riflesso dell a credibilità ed autorità di Cristo. Evidenzia la loro mancanza di preghiera e la necessità di quest'ultima (insieme al digiuno, per alcuni manoscritti) per una corretta espressione della propria autorità delegata.

La versione di Matteo pone enfasi sulla fede, importando probabilmente la concezione ebraica di quest'ultima e sfidando i lettori a ricercare la qualità più che la quantità della propria fede. Ciò che fa la differenza infatti non è l'abbondanza ma piuttosto la genuinità della propria fede. Una fede genuina, anche se piccola quanto un granello di senape, infatti, può spostare una montagna. Nulla è impossibile a chi ha fede in Dio (e non in sé stesso o nel proprio potere spirituale).

Luca infine presenta sempre il disappunto di Gesù ma il soggetto del suo racconto non riguarda le mancanze dei discepoli ma l'autorità di Cristo. Questo evangelista infatti è l'unico a riportare che tutti rimasero sbalorditi della grandezza di Dio, e che tutti si meravigliavano di tutte le cose che Gesù faceva. Secondo Luca, Gesù è al centro della scena, ne è il principale protagonista, e tutta la narrazione serve per evidenziare il Suo successo, accostato all'ombra della passione che si allunga sempre di più. Una crisi, un successo e lo sguardo proiettato verso una crisi molto maggiore, a cui però seguirà un ancor più grande trionfo.  

martedì 1 aprile 2014

La sorgente e la cisterna

Il mio popolo infatti ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente d'acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l'acqua.
Geremia 2:13


Per ogni credente prima o poi arriva il momento in cui pensare di potersi sedere sulle esperienze fatte in passato, raccogliere l'acqua ricevuta da Dio e metterla in altre cisterne, costruite apposta per poter stare più comodi. Ma nessuna cisterna può tenere questa acqua. E gli effetti della disidratazione diventano via via più evidenti: sete, debolezza, ansia, vertigini, torpore e deficit cognitivi, deliri. C'è chi si accorge presto, chi arriva ai sintomi più gravi, e chi muore nella prigionia del proprio stesso inganno.

Ma, finché siamo vivi, ciascuno di noi ha la possibilità di tornare a Dio in qualsiasi momento, alla sorgente di acqua viva. Tornare ad un'acqua che non si può addomesticare, manipolare, rinchiudere o canalizzare. Un'acqua che zampilla gagliardamente oltre i peccati, gli schemi mentali, il settarismo ed il giudizio umano. Un'acqua che distrugge e che ricrea, un'acqua che conduce ciascuno di noi verso nuove frontiere di libertà, di conoscenza, di esperienza e condivisione.

Ci si può affezionare alla cisterna costruita con le proprie mani, ma dell'acqua di Dio non si può far altro che rimanere follemente innamorati.


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