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martedì 22 aprile 2014

Ogni scriba discepolo del Regno è simile...


Matteo 13:1,2 In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva. 

Il tredicesimo capitolo del vangelo secondo Matteo inizia con queste parole. La narrazione si apre con Gesù che esce di casa e si reca verso il mare. La folla lo raggiunge e Lui si mette su una barca vicina alla riva per insegnare molte cosa in parabole (v.3). 


La prima parabola descrive un seminatore che sparge il seme su vari tipi di terreno, ma solo quello caduto sulla buona terra riesce ad attecchire e portare frutto. 

Matteo 13:10,11 Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato.

Visto l'interesse dei discepoli, Gesù inizia quindi a spiegare il significato della parabola: molte persone odono la parola del Regno, ma alcuni non la comprendono e il diavolo la porta via, altri la ricevono con gioia ma nel momento della tribolazione vengono sviati, altri ancora la soffocano con i desideri mondani e l'inganno delle ricchezze. Solo alcuni dunque ricevono la parola, la ritengono e la fanno fruttare: coloro che hanno ricevuto il seme in terra buona. 

Il Signore però continua ad insegnare, proponendo la parabola delle zizzanie e del buon seme. Il Regno dei cieli dunque viene paragonato ad un uomo che aveva seminato buon seme nel suo campo, ma di notte il suo nemico viene di nascosto per seminare altre piante, infestanti ed intossicanti. Ormai il danno è fatto e mentre i vegetali stanno crescendo non si può fare più nulla: bisogna attendere che arrivino a maturazione per mieterli insieme e separarli successivamente.

Il Regno poi viene assomigliato anche ad un piccolo granello di senape, che al tempo opportuno diventa un albero gigantesco. Ma anche al lievito usato da una donna per far fermentare la pasta.

I discepoli a questo punto chiedono ancora spiegazioni, e Gesù spiega meglio il significato della parabola delle zizzanie.

Poi gli dice che il Regno dei cieli è anche simile a un tesoro nascosto in un campo, che un uomo compra con tutti i suoi averi pur di possederlo; e ad un mercante di perle che, trovata una perla di gran valore, decide di comprarla investendo in modo simile tutto quello che ha. Infine, Egli presenta il Regno come una rete da pesca che raccoglie pesci di ogni tipo, pesci che il pescatore a fine giornata deve dividere per separando quelli buoni da quelli che non valgono nulla.  


A questo punto, il Signore rivolge una domanda ai discepoli, o forse alla folla (v.51): "Avete capito tutte queste cose?

Essi risposero: "Sì".


Allora disse loro: «Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie».
Matteo 13:52 

Questa sintesi finale sembra dare un'ulteriore significato a questo prezioso capitolo. In questo contesto infatti, il Signore ha descritto il Regno di Dio in molti modi diversi per far capire ai discepoli le sue caratteristiche fondamentali. Il Regno viene presentato a tutti, ma pochi lo accolgono. Molti infatti crescono nella malvagità coltivata da Satana, assomigliata alle piante infestanti ed intossicanti, e solo alla fine dei tempi verrà il giudizio. Il Regno si è presentato nel mondo con la nascita stessa di Cristo, un piccolo neonato, ma è destinato a diventare il più grande Regno mai visto, e a stabilire la sua influenza su tutto il mondo (Salmo 2). Un piccolo elemento capace di crescere a dismisura, così come il lievito fa fermentare la pasta. Chi si imbatte nel Regno, poi, non può far altri che lasciare tutto quello che ha, per venirne incluso. Esattamente come i discepoli hanno lasciato i loro lavori e le loro famiglie per seguire il Signore.

Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del Regno è come un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. 


Gli scribi del tempo di Gesù non erano semplici copisti ma profondi conoscitori delle Scritture, incaricati anche di leggerle, tradurle ed interpretarle per il popolo. Essi erano quasi in competizione con i sacerdoti, si ritenevano addirittura ideali eredi dei profeti.

La frase di Gesù li inserisce quindi in una figura retorica a chiasmo, ossia in un incrocio immaginario fra due coppie di parole secondo uno schema sintattico di tipo A, B, B, A che possiamo schematizzare in questo modo:

(a) scriba                            (b') cose nuove


(b) discepolo del Regno         (a') cose vecchie

La struttura sintattica della frase di Gesù associa allo scriba le cose vecchie, e al discepolo del Regno le cose nuove. Queste coppie di elementi però non si pongono in antitesi ma vengono presentate come un'evoluzione. 

"Infatti, chi è interprete professionale della Torah, se accetta di entrare nella logica del Regno proclamata sinora in parole e azioni da Gesù, ha un'unica certezza: nel suo tesoro (= la base della propria identità culturale) il nuovo che scopre non è alternativo, ma in sviluppo, senza separazioni dalle proprie radici."[1]
Lo scriba che abbraccia l'insegnamento di Gesù non è chiamato a rinnegare la sua radice ebraica ma piuttosto a svilupparla secondo la nuova logica del Regno di Dio presentata da Gesù. Lo scriba è un esegeta della Legge e il suo compito è quello di interpretarla. Gesù invece è un esegeta della vita: ogni elemento del creato gli parla di Dio, ed ogni aspetto della creazione gli è utile per spiegare l'identità e le intenzioni del Padre. Cristo è lo Spirito delle Scritture: adempie numerose profezie bibliche ma non è schiavo delle lettere e della carta. Egli si presenta e presenta il Padre attraverso le Scritture ma anche e soprattutto attraverso il Suo stile di vita, i Suoi insegnamenti che nascono dall'osservazione della natura, e i miracoli che testimoniano della volontà di soccorrere e guarire l'uomo in un modo assolutamente pieno e completo. La tradizione ebraica e la Torah non sono quindi presentati come qualcosa da accantonare ma come un tesoro da continuare a custodire. Un tesoro però che non può essere composto solo da questi elementi. C'è qualcosa di nuovo da aggiungere, qualcosa di vibrante, di vivo: l'esperienza del Regno di Dio. Vivere la realtà del Regno in modo tradizionalistico, è impossibile. Il Regno è per sua natura vivo e in espansione. E' come un albero che cresce, del lievito che fermenta. Non può essere catalogato o contenuto. Non può essere neanche studiato, a causa della limitatezza della natura umana. Un giorno ha una certa conformazione, pensi quindi che quello sia il Regno, ma il giorno dopo si presenta già più grande, differente. Il Regno di Dio non è una realtà da studiare, ma da vivere. 

Se questo era vero per gli scribi ebrei del primo secolo, penso che possa essere vero anche per quelli del nostro tempo, e addirittura anche per i cristiani di ogni generazione. Facilmente la vita di fede si cristallizza in una sequenza di atti liturgici, e questo è tanto vero per gli ebrei quanto lo è per i cristiani. Nascere e crescere in un contesto cristiano porta a consolidare una serie di insegnamenti, valori morali e attitudini devozionali, ma per ogni persona arriva il momento in cui comprendere l'impossibilità di vivere con la fede degli altri. Spesso le denominazioni evangeliche pentecostali hanno l'apparenza di vivere le realtà dello Spirito, ma nessuno è immune dai pericoli dell'istituzionalizzazione. Quanto è facile che un atto di ubbidienza a Dio si trasformi in poco tempo in un'azione meccanica! Molti si reputano esperti conoscitori della Bibbia, ed alcuni effettivamente lo sono. Ma tra questi molto pochi vivono come discepoli del Regno dei cieli. Conciliare la presenza di cose vecchie e cose nuove nel proprio tesoro infatti può sembrare facile ma in realtà è incredibilmente difficile. Significa appoggiare la propria fede non su un'idea ma su Cristo stesso. Significa esercitare la propria elasticità mentale ed essere disposti a cambiare paradigmi. Significa essere fedeli alla propria coscienza radicata nelle Scritture fino in fondo, fino al punto da rinunciare al proprio ego nel momento in cui si realizza che una certa dottrina viene dalla tradizione umana e non dal testo biblico. Significa maturare nella propria identità, ma essere pronti alla crescita ed al cambiamento. Significa ascoltare la voce di Dio nelle Scritture, senza trarre da essa solamente dei comportamenti etici. Questa è la sfida che Gesù ha portato a tutti gli ebrei del tempo passato e presente. Ma è anche la sfida che ha portato a chi pensa di vivere come discepolo del Regno appoggiandosi invece nella comodità di una sistema tradizionalistico. 

Il grande elemento di diversità del cristianesimo delle origini rispetto alla più antica religione ebraica, era proprio la caratteristica di essere fondata tanto sul Gesù del passato, quanto sul Signore risorto e presente tra i suoi.
Alla tradizione dei detti di Gesù non basta, perciò, ricordarne le parole al passato, ma ha bisogno di ascoltarne le parole nel presente e per questo attualizza le parole ricevute.2 
Questa è stata la dinamica che ha portato alla redazione dei vangeli, ma penso che questa debba anche essere la dinamica della vita di fede quotidiana di ogni credente. Seguire Cristo infatti non significa ricordare le Sue parole al passato ma attualizzarle al presente, vivere secondo questi insegnamenti con la consapevolezza di camminare alla presenza di un Dio vivente e vero non solo nella celebrazione domenicale ma anche e soprattutto in ogni momento della nostra quotidianità. Aumentare la ricchezza del proprio tesoro aggiungendo cose nuove alle cose vecchie. Esattamente come lo scriba di cui parla Gesù. 


Note:
[1] cit. Parola&parole, nr 16, Credere fa vivere: il vangelo secondo Matteo e la fede quotidiana per tutti, Ernesto Borghi e Renzo Petraglio, periodico dell'Associazione Biblica della Svizzera Italiana, p. 91.
[2] cit. Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Rafael Aguirre Monasterio, Antonio Rodriguez Carmona, Ed. Paideia, p. 31.

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