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venerdì 27 dicembre 2013

Da dove viene il male?

ATTENZIONE: consiglio di leggere anche questo articolo, per avere una conoscenza più completa su tale argomento.

Fin dall'alba dei tempi, l'uomo si è sempre interrogato sull'origine del male e della sofferenza, arrivando a conclusioni molto diverse tra di loro. Sin dalle prime testimonianze scritte, troviamo prove di questi pensieri e spesso anche dei ragionamenti e presupposti che hanno portato ad essi. Uno dei ragionamenti più significativi dell'antichità può essere ad esempio quello del filosofo greco Epicuro, che già nel 400 a.C. si interrogava sulla natura degli dèi che permettevano l'esistenza del male, giungendo alla conclusione che questi erano sì potenti da togliere il male sulla terra ma semplicemente non si curavano delle vicende umane, relegandosi nel loro mondo perfetto. 

Essendo un problema esistenziale, anche la Bibbia ne viene coinvolta con un ruolo sicuramente di prim'ordine. Pensiamo al libro di Giobbe, il cui tema principale è proprio questo, e alla celebre e sofferta frase del suo protagonista:

«Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra; il SIGNORE ha dato, il SIGNORE ha tolto; sia benedetto il nome del SIGNORE». Giobbe 1:21 

Di fronte alla perdita di tutti i suoi beni e della sua famiglia, quest'uomo "integro e retto", riconosce che Colui che lo ha privato di tutto questo è anche Colui che in principio gliene ha fatto dono, benedicendo comunque il Suo nome. Ma anche dopo che la sua stessa salute viene a mancare, rimane fermo su questa posizione, replicando alla moglie che gli diceva di abbandonare Dio: 

«Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?» 
Giobbe 2:10 

Giobbe non conosceva il consiglio celeste descritto all'inizio del libro. Non conosceva il dialogo tra Satana e Dio. Non sapeva che era stato oggetto delle attenzioni di Satana, sotto permesso del Signore. Ma sapeva invece che lo stesso Dio che lo aveva assistito in tutta la sua vita e al quale era fedele più di ogni altro uomo sulla terra, era un Dio onnipotente e governava sulla natura e sugli eventi che accadevano nel mondo, di conseguenza anche su quelli che portavano sofferenza. La parola "male" usata in quest'ultimo versetto, è resa con il termine ebraico ra‛, termine purtroppo molto vago che identifica a seconda dei contesti l'avversità, l'afflizione, il male, la calamità, il dispiacere, ma anche il dolore, la fatica ed ancora altri significati. 


Come è mai possibile che il male venga dallo stesso Signore che è conosciuto per il suo amore immenso? Questo aspetto della Scrittura non può far altro che complicare il problema presentando degli aspetti che portano ad un vero e proprio paradosso. Sicuramente non possiamo comprendere appieno Dio, né siamo a chiamati a farlo. La Scrittura infatti ci chiama piuttosto a conoscere Dio, attraverso la rivelazione che abbiamo di Lui nella Bibbia e ad una esperienza personale di ravvedimento e conversione. La stessa Scrittura però ci viene in soccorso, e lo fa in molti modi. I libri dei Salmi riprendono in abbondanza questo tema, e anche se non esplicano l'origine del male, sottolineano il fatto che:

La mia carne e il mio cuore possono venir meno,
ma Dio è la rocca del mio cuore e la mia parte di eredità, in eterno.
Salmo 73:26 

È stata un bene per me l'afflizione subita, perché imparassi i tuoi statuti.
Salmo 119:71 

Anche di fronte alla sofferenza e alle avversità, anche di fronte a ciò che non si conosce né si spiega, il Signore resta sempre e comunque l'unico punto fermo per ogni credente ed una vera e propria ricompensa tanto per questa vita quanto per quella futura. Il concetto sottinteso è il fondamento della fede nel Signore e del fatto che Egli sa quello che fa, e di certo vuole fare il bene di coloro che sono chiamati secondo il Suo disegno, anche se al momento non sembra così (cfr. Romani 8:28). La ragione umana dunque non può comprendere i disegni di Dio, che ha uno scopo per tutto quello che fa. 

Come tu non conosci la via del vento, né come si formino le ossa in seno alla donna incinta, così non conosci l'opera di Dio, che fa tutto. 
Ecclesiaste 11:5 

Ma è proprio Dio, l'origine del male? La domanda resta coinvolta in questi ragionamenti e pesa come un pugno nello stomaco. Si può dare la colpa all'uomo e alle conseguenze delle sue azioni (e sicuramente, ad un primo livello è biblicamente vero: l'uomo raccoglie ciò che semina), si può dare la colpa a Satana e ai demoni (e sicuramente, ad un secondo livello è biblicamente vero: lo abbiamo appena visto nello stesso racconto di Giobbe), ma ogni credente sincero con sé stesso continuerà ad avere in un angolo della propria mente quello stridore che si crea accostando l'onnipotenza di Dio con l'esistenza del male. Se è vero - come è vero - che il Signore è onnipotente, sia le decisioni degli uomini (cfr. Proverbi 16:9), che le azioni dei demoni (cfr. Giobbe 1:12) gli sono sottoposte. Alcuni vedono una soluzione a questo problema limitando la potenza di Dio al libero arbitrio dell'uomo. Personalmente però, credo che alla luce delle Scritture sia più corretto limitare la potenza di Dio alla stessa volontà di Dio. Per approfondire questo concetto, consiglio di leggere l'articolo precedentemente scritto su questo tema, nel paragrafo che mostra come l'onnipotenza del Signore coincida in realtà con la Sua provvidenza. Prendendo in prestito le parole di Platone inserite nella teologia di Giovanni Calvino dunque, "il bene è tale perché voluto da Dio". 

Per chiarire meglio questo punto, credo sia utile vedere un paio di altri versetti biblici che hanno una cosa fondamentale in comune con il brano con cui abbiamo iniziato il ragionamento: la parola ra‛.

Io formo la luce, creo le tenebre,
do il benessere (= shâlôm= pace), creo l'avversità;
io, il SIGNORE, sono colui che fa tutte queste cose.
Isaia 45:7 

Nell'oracolo profetico di Isaia diretto a Ciro II di Persia, il Signore si presenta come Colui che crea la luce e le tenebre, il benessere e l'avversità. Quest'ultima traduzione però copre la parola originale, che anche in questo caso è ra‛, ossia il male in senso generico. Questo fatto ci fa tornare punto e a capo, ancora una volta al cuore del problema da affrontare direttamente. Lascio questo compito gravoso proprio a Giovanni Calvino e alle sue parole:


"I fanatici torturano questa parola "male", come se Dio fosse l'autore del male, cioè del peccato, ma è molto evidente come abusano di questo passo del profeta in modo addirittura ridicolo. Questo è sufficientemente spiegato dal contrasto presente nel versetto, le parti che devono essere d'accordo con l'altro, perché egli contrappone la "pace" con " il male ", cioè , con afflizioni, le guerre e altri eventi avversi. Se egli contrapponesse "giustizia" con " male", ci sarebbe una certa plausibilità nei loro ragionamenti , ma questo è un contrasto manifesto di cose che sono di fronte all'altro. Di conseguenza , non dobbiamo respingere la distinzione ordinaria, che Dio è l'autore del "male" della pena , ma non del "male" di colpaI sofisti tuttavia sbagliano nella loro esposizione , perché, mentre essi riconoscono che la carestia , la sterilità , la guerra , pestilenza e altri flagelli , vengono da Dio , negano che Dio è l'autore di calamità , quando questa ci arriva tramite degli uomini. Questo è falso e del tutto in contrasto con l'attuale dottrina, perché il Signore suscita uomini malvagi per punire noi attraverso la loro mano , come è evidente da vari passi della Scrittura. ( 1 Re 11:14 , 23 .) Il Signore non li ispira effettivamente con cattiveria, ma li usa con lo scopo di castigare noi , ed esercita l'ufficio di giudice , nello stesso modo con cui ha fatto uso della malizia del faraone e di altri , al fine di punire il suo popolo " ( . Esodo 01:11 e 02:23 ) Dovremmo quindi tenere questa dottrina , che solo Dio è l'autore di tutti gli eventi , cioè , che l'avversità e la prosperità degli eventi vengono inviati da lui , anche quando lo fa attraverso degli uomini , o attraverso per qualsiasi altra causa." (Isaiah 45:7 Calvin's Commentaries - Chapter 45:7)

La risposta di Calvino dunque è che Dio è sì l'autore del male della pena, ma non del male della colpa. Potremmo comprendere meglio questa frase, approcciandoci al pensiero di Agostino d'Ippona. Egli infatti aveva riflettuto proprio sul termine "male" giungendo ad alcune distinzioni che sono state fondamentali nella storia della teologia cristiana, chiarendo un termine che come abbiamo visto non viene spiegato sufficientemente nel vocabolario ebraico dell'Antico Testamento. Agostino quindi distingueva tra:


→ Male morale – è il peccato, la trasgressione della legge di Dio
→ Male fisico – il dolore, il male come conseguenza di fenomeni naturali
→ Male ontologico/metafisico – derivato dalla nostra creaturalità.

Dio può essere causa del male fisico e del male ontologico o metafisico ma non può essere causa del male morale in quanto esso è per definizione la trasgressione a Sé stesso. I Suoi pensieri, la Sua attitudine è vincolata all'amore e al bene, in armonia con la rivelazione della Bibbia che ci testimonia che Dio è amore (cfr. 1 Giovanni 4:8). Egli è la personificazione e l'essenza dell'amore, l'identità dell'amore! Ma per perseguire i Suoi scopi e disegni utilizza anche il male fisico e metafisico, con lo scopo però di convertirlo infine al bene. Le vicissitudini della vita del patriarca Giuseppe spiegano al meglio questo modo di operare del Signore, e le sue parole nell'ultimo capitolo di Genesi chiariscono quello che a livello teorico può rimanere confuso:

Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso. Genesi 50:20

I fratelli di Giuseppe lo hanno venduto dando sfogo al peccato e alla ribellione verso Dio, ripieni del male "morale". Ma il Signore ha governato in modo sovrano ogni situazione, senza toglierlo da ogni sofferenza, ma piuttosto usando ogni sofferenza e dolore per portarlo a crescere nel carattere, nell'autorità, nella misericordia, nell'umiltà ed infine ponendolo in una posizione di incredibile potere. Un trascorso ed una nuova posizione che gli ha permesso di perdonare i fratelli e aiutare la sua famiglia in una tremenda carestia provvedendo ad essa la sopravvivenza. Credo che questa rivelazione possa essere la giusta risposta ad una domanda così spinosa, e motivo di una fede ancora più profonda per ogni figlio di Dio. 

martedì 24 dicembre 2013

La parabola del gran convito: un'analisi intertestuale

Uno degli invitati, udite queste cose, gli disse: «Beato chi mangerà pane nel regno di Dio!» Gesù gli disse: «Un uomo preparò una gran cena e invitò molti; e all'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: "Venite, perché tutto è già pronto". Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: "Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi". Un altro disse: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi". Un altro disse: "Ho preso moglie, e perciò non posso venire". Il servo tornò e riferì queste cose al suo signore. Allora il padrone di casa si adirò e disse al suo servo: "Va' presto per le piazze e per le vie della città, e conduci qua poveri, storpi, ciechi e zoppi". Poi il servo disse: "Signore, si è fatto come hai comandato e c'è ancora posto". Il signore disse al servo: "Va' fuori per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, affinché la mia casa sia piena. Perché io vi dico che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati, assaggerà la mia cena"».
Luca 14:15-24 

Gesù ricominciò a parlare loro in parabole, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece le nozze di suo figlio. Mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze; ma questi non vollero venire. Mandò una seconda volta altri servi, dicendo: "Dite agli invitati: Io ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono ammazzati; tutto è pronto; venite alle nozze". Ma quelli, non curandosene, se ne andarono, chi al suo campo, chi al suo commercio; altri poi, presero i suoi servi, li maltrattarono e li uccisero. Allora il re si adirò, mandò le sue truppe a sterminare quegli omicidi e a bruciare la loro città. Quindi disse ai suoi servi: "Le nozze sono pronte, ma gli invitati non ne erano degni. Andate dunque ai crocicchi delle strade e chiamate alle nozze quanti troverete". E quei servi, usciti per le strade, radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni; e la sala delle nozze fu piena di commensali. Ora il re entrò per vedere quelli che erano a tavola e notò là un uomo che non aveva l'abito di nozze. E gli disse: "Amico, come sei entrato qui senza avere un abito di nozze?" E costui rimase con la bocca chiusa. Allora il re disse ai servitori: "Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti". Poiché molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti».
Matteo 22:1-14 



I Vangeli secondo Matteo e Luca, sono tradizionalmente associati ad una redazione anteriore al 70 d.C., ma la maggior parte degli studiosi moderni indicano che la loro redazione è avvenuta piuttosto in un lasso di tempo compreso tra il 70 e il 100 d.C. Entrambi i Vangeli vengono ora ritenuti come successivi al Vangelo secondo Marco, seguendo quella che in gergo tecnico viene chiamata priorità marciana. La teoria più accreditata infatti vede nel Vangelo di Marco una fonte utilizzata assieme ad altre (Q ed altre ancora) per la redazione dei nuovi due Vangeli, che avrebbero elaborato di conseguenza degli scritti preesistenti. Principalmente, esistono due grosse categorie di studio linguistico e letterario dei Vangeli: lo studio sincronico e lo studio diacronico. La prima categoria si concentra nello studio di un testo senza preoccuparsi che il testo possa essere costituito da strati più antichi ed altri più recenti. Lo studio diacronico invece, evidenzia proprio questo aspetto: ossia il modo in cui tradizioni e testi si sono sviluppati con il passare del tempo. L'intertestualità, a sua volta, indica l'interesse verso una comparazione e una relazione tra due o più testi. Oltre alla lettura ed allo studio dei Vangeli in modo verticale (ossia leggendo un singolo Vangelo dall'inizio alla fine) è possibile di conseguenza approcciarsi allo studio in modo orizzontale, comparando i brani simili od uguali proprio per studiare quello che si può evidenziare da questa correlazione, e scoprire l'evoluzione, l'influenza, la diversità insita nella redazione delle pericopi coinvolte. 

Avvicinandoci ai brani in apertura di questo articolo con la consapevolezza di quanto appena visto, è possibile fare delle semplici osservazioni dai significati tuttavia molto interessanti. Sappiamo che i Vangeli di Matteo e Luca sono stati scritti in contesti diversi e, sebbene non ci sia certezza sulla precisa data della loro scrittura, appare invece chiaro che in origine erano destinati a lettori ed ascoltatori di differente estrazione. Il Vangelo di Matteo presenta una forte familiarità con termini ed usanze giudaiche, senza dare loro nessuna particolare spiegazione. In riverenza nei confronti del nome di Dio, riporta spesso l'espressione "regno dei Cieli", secondo l'usanza rabbinica. Presenta inoltre numerosi parallelismi, espressioni tipiche della poesia ebraica. 
Il Vangelo secondo Luca invece pone particolare attenzione a presentare un racconto storico preciso ed accurato, dipingendo il cristianesimo come una nuova religione rispettabile, rispettosa delle leggi ed internazionale. E' facile comprendere come il primo possa essere stato scritto da un giudeo cristiano che si rivolgeva ad altri connazionali, mentre il secondo possa essere stato diretto ad un pubblico di gentili con differenti mentalità e concezioni. Probabilmente questa diversità rispecchia non solo una differenza geografica e culturale ma anche temporale, ma come abbiamo visto questo non è possibile dirlo con certezza. 

Addentriamoci ora finalmente nel cuore dei brani biblici in questione, che ci proponiamo di analizzare in base alle nostre capacità ed ai nostri mezzi. Leggiamo quella che viene comunemente identificata come la parabola del gran convito, oppure parabola delle nozze. Alcuni ritengono che siano due racconti simili ma a sé stanti; studiando i brani in modo diacronico tuttavia risulta evidente che stiamo parlando di due pericopi che risalgono con molta probabilità ad una fonte comune (Q per esempio?) ma che hanno subìto una evoluzione redazionale differente a causa appunto del tempo e dei destinatari a cui erano rivolti, con la possibilità che un autore fosse a conoscenza dell'altro scritto. Ho evidenziato con colori differenti le espressioni tipiche dell'una e dell'altra versione, proprio per facilitare l'identificazione delle peculiarità di ciascun elemento. La prima considerazione che si può fare, riguarda la modalità in cui le pericopi vengono intessute nei Vangeli. Luca infatti pone la parabola in mezzo ad una discussione ad ampio respiro tra Gesù ed i farisei, presentandola come risposta alla provocazione di uno di quest'ultimi. Matteo invece decide di posizionarla in una accesa discussione tra Gesù e i capi del popolo ebraico, poco prima della passione di Cristo. Se la prima contrapposizione tra due dottrine era mostrata con una certa completezza, la versione di Matteo sembra invece unirsi all'insieme di insegnamenti del Signore che conducono al contrasto della sua sofferenza e della sua morte, trovando infine un nuovo significato nella sua resurrezione. Perché queste differenze? Luca afferma esplicitamente di aver compiuto degli studi in modo da ordinare i fatti per poterli presentare con ordine e completezza in modo da confermare la loro validità (Lc. 1), il suo scopo quindi era principalmente questo. Matteo invece vive probabilmente in una comunità post pasquale che ancora risente della memoria del gruppo pre pasquale, che mettendo l'accento sull'evento trasformante della resurrezione, vuole comunicare in esso più che mai il senso della fede cristiana e della salvezza offerta ai gentili. Il significato della parabola infatti può essere affiancato al seguente messaggio che l'Apostolo Paolo scrisse alla comunità di Roma:

Così egli dice appunto in Osea: «Io chiamerò "mio popolo" quello che non era mio popolo e "amata" quella che non era amata»; e «Avverrà che nel luogo dov'era stato detto: "Voi non siete mio popolo", là saranno chiamati "figli del Dio vivente"». 
Romani 9:25-26 

Una possibile interpretazione infatti vede il banchetto che prima si pensava fosse offerto soltanto ai giudei, ora aperto a tutti i popoli (anche ai gentili), disponibile anche a tutti coloro che venivano considerati impuri dagli ebrei. Quello che non era il popolo di Dio (le popolazioni di origine non ebraica), ora può venire chiamato popolo di Dio (la Chiesa gentile). Una differente interpretazione invece vede una prima chiamata a Israele associata alla Legge seguita da una seconda chiamata associata alla salvezza. Tornando al testo, e continuando nella nostra analisi, è possibile notare il fatto che Luca precisa le scuse accampate dagli invitati originali, scuse che non sono minimamente sostenibili. Nessuno infatti comprava un campo senza prima vederlo, comprava dei buoi senza provarli, oppure poteva rifiutare un simile invito perché appena sposato. Matteo invece riassume brevemente il tipo di scuse senza entrare nei dettagli. La fine dei servitori mostra poi un'altra differenza. I servitori descritti da Luca tornano sobriamente dal loro padrone per informarlo dei rifiuti, i servitori descritti da Matteo invece vengono maltrattati ed uccisi. La prospettiva giudaica quindi evidenzia ancora una volta la colpa del popolo ebraico sopra il non ascolto e l'uccisione dei profeti del passato, sostenuta anche dal personaggio autorevole della parabola: un re. Quello che Luca presenta come "un uomo", in Matteo infatti è "un re", riproponendo l'immagine di YHWH come ultima autorità sopra Israele. Quello che in Luca è una semplice cena, in Matteo è un banchetto nuziale per il figlio del re. Il banchetto del matrimonio tra il Signore e il suo popolo, possibilmente tra il Signore ed il suo nuovo popolo, formato tanto dai giudei quanto dai gentili. 
Luca a questo punto termina il racconto con una frase lapidaria, che chiude le porte a coloro che erano stati invitati originariamente per aprirle verso il futuro che ora appartiene ai nuovi invitati. Proprio qui, al termine della parabola riportata da Matteo, troviamo - ancora una volta - una versione differente e peculiare, non priva di significato. Il racconto di Matteo infatti finisce con un episodio a tratti inquietante, che conserva la tensione palpabile presente nel cuore del racconto. Mi riferisco all'abito di nozze. Questo elemento, completamente assente nella versione di Luca, deve essere ben ragionato per trovare una sua ragione di essere. Il racconto coinvolge persone radunate "nei crocicchi delle strade", prese quasi a caso per strada e sicuramente impossibilitati a raggiungere il banchetto con abiti adatti. Chi aveva dato dunque a questi nuovi invitati le vesti per il banchetto nuziale? Non poteva essere altra persona che il re, direttamente lui. L'individuo senza veste non dev'essere passato quindi dal re, entrando al banchetto senza essere stato chiamato dai servitori oppure rifiutando direttamente la veste. La veste della giustificazione di Dio, unica strada per vivere nella sua salvezza, non può essere rifiutata senza pagare conseguenze eterne. Anche se i gentili sono chiamati ora ad essere commensali di questo banchetto escatologico infatti, non sono esenti dal passare attraverso il sacrificio di Cristo, unica Via che porta al Padre e al futuro di comunione con lui. Non c'è altro fondamento, non c'è altro Vangelo, non c'è altra salvezza al di fuori del Signore Gesù. Questo era il messaggio che Matteo voleva inculcare ai suoi lettori ebrei che probabilmente ancora non vedevano di buon occhio i credenti gentili, e questo è lo stesso messaggio su cui noi - credenti gentili del XXI secolo - dobbiamo meditare e riflettere. La salvezza del Signore è qualcosa di tanto meraviglioso quanto può esserlo un banchetto nuziale offerto gratuitamente a chi sta morendo di fame e di freddo per strada. Questo è il messaggio comune dei due brani, il cuore teologico di un messaggio così meraviglioso, qualcosa da vivere e condividere ogni giorno della nostra vita.

domenica 15 dicembre 2013

Il presbitero Ario e la controversia cristologica

Ario nasce in Libia nel 256 d.C. 
Non si conosce molto della sua giovinezza, ma si sa per certo che alla fine dei suoi studi teologici viene nominato presbitero in una chiesa di Alessandria. 

Già da parecchio tempo tra i cristiani era nata una difficile riflessione sulla natura di Cristo: come conciliare l'assoluto monoteismo dell'Antico Testamento con gli insegnamenti neotestamentari (in particolare giovannei e paolini) che associano a Gesù di Nazareth una piena divinità? La Chiesa aveva riflettuto a lungo su questo problema, trovando risposte anche molto differenti tra di loro, racchiuse in due frange estreme. Da una parte infatti, i gruppi giudeo cristiani abbracciarono il punto di vista veterotestamentario, secondo una dottrina monarchianista (nelle sue versioni adozionista e modalista). Dalla parte opposta invece, coloro che venivano più influenzati dalla filosofia greca trovarono una soluzione nella dottrina del Logos, che vedeva in Gesù una divinità subordinata ad un Dio troppo elevato e remoto per essere coinvolto nelle vicende mortali, oppure nel docetismo, basato sulla convinzione che le sofferenze e l'umanità di Cristo fossero apparenti e non reali. 

Il monarchianesimo nasce quindi proprio per non incrinare il monoteismo biblico, secondo una cristologia piuttosto primitiva che vedeva in Gesù un semplice uomo che sarebbe stato adottato da Dio nel momento del battesimo, ricevendo in questa occasione lo Spirito Santo. Questa versione dottrinale prende il nome di adozionismo. Esistevano però anche dei monarchiani che preferivano una soluzione differente, pensando a Gesù e allo Spirito Santo come a due "modi" differenti in cui il Padre si era manifestato. Vedevano dunque un unico Dio che operava attraverso ruoli differenti, pur essendo comunque la stessa persona. Tale monarchianesimo è detto modalistaQuesta teologia negava quindi la distinzione tra le persone divine e, percorsa fino in fondo, induceva a ritenere che sulla croce aveva sofferto il Padre stesso. Per questo motivo i detrattori dei monarchiani li chiamavano in maniera denigratoria con il nome di patripassiani

Ario, non vedendo bene la dottrina monarchianista, si inserisce in questa controversia iniziando a negare la piena divinità di Gesù (e il fatto che fosse della stessa sostanza del Padre) vedendo in lui la prima e più alta creatura di Dio, ma niente in più di questo. Il suo insegnamento raccoglie molte adesioni e velocemente inasprisce il dibattito sulla questione cristologica, portando ad una scomunica e successiva riammissione da parte del patriarca di Alessandria. Un sinodo convocato dal nuovo patriarca nel 318 dichiara infine ufficialmente eretica la dottrina ariana, applicando una scomunica definitiva. Ario è costretto a scappare in Palestina, ma la sua condanna determina una serie di reazioni favorevoli a questo insegnamento, trovando in questa regione terreno fertile per diffondersi e prendere forza. Un nuovo sinodo del 321 conferma la decisione del cristianesimo Orientale.
In questo clima di tensioni, iniziano a moltiplicarsi accanite discussioni non solo tra teologi e vescovi ma anche in tutte le comunità cristiane dell'epoca, avendo un tale impatto sull'opinione pubblica da attirare le attenzioni del popolo pagano che - non capendo queste battaglie di parole - mette in scena nei teatri le dispute e i litigi di cui davano esempio i vescovi cristiani. 
La preoccupazione dell'imperatore Costantino per la pace religiosa dei suoi sudditi, porta infine alla convocazione del Concilio di Nicea.


Il 20 Maggio del 325 si apre il Concilio, composto da poco meno di trecento vescovi (perlopiù Orientali), sotto la presidenza dell'imperatore stesso. Dopo lunghi dibattiti e confronti, viene redatta di una professione di fede chiaramente antiariana, sottoscritta da tutti i vescovi convenuti ad eccezione di Ario e due dei suoi sostenitori, che vengono esiliati. L'imperatore decide di far recapitare a tutte le chiese un documento con cui presentare la decisione comune, che sarebbe stata vincolante per tutti. Pur essendo giunti ad un verdetto, non sono mancate le polemiche che attaccavano principalmente l'utilizzo di concetti e parole non desunte dal testo biblico (che identificavano Gesù come "Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre"). 

L'idea ariana rimane comunque presente in certe realtà Orientali, e Ario stesso viene successivamente richiamato dall'imperatore, con il quale riesce ad avere la possibilità di condividere le sue opinioni e venire addirittura riabilitato.

Il fondatore dell'arianesimo trova la morte nel 336 d.C. a Costantinopoli, lasciando al mondo una dottrina riaffiorata più volte nella cristianità, in modo particolare sotto gli imperatori Costanzo II e Valente. Il cristianesimo tuttavia si era pronunciato, e le decisioni prese dal Concilio di Nicea hanno consentito ad una svolta fondamentale sulla controversia cristologica e trinitaria, svolta sulla quale ancora oggi 
si appoggia tutta l'ortodossia cristiana.


Bibliografia:

Cristianesimi nell'antichità. Giancarlo Rinaldi. Edizioni GBU.

domenica 8 dicembre 2013

La Controriforma

La situazione nell'Europa del XVI - XVII secolo.
La nascita e la diffusione della riforma protestante non hanno di certo lasciato indifferente la Chiesa cattolica romana, che fin da subito ha riconosciuto in essa un grave pericolo per la propria autorità. Già dal 1519 infatti teologi, prelati, universitari e umanisti iniziano ad osteggiare il movimento allora nascente. La facoltà di teologia di Lovanio è la prima a condannare l'insegnamento di Lutero, ma viene presto seguita anche dalla prestigiosa facoltà di Parigi. Jean Eck, Jean Cochlaeus e John Fisher sono solo alcuni degli oppositori di Lutero, ma l'umanista Erasmo da Rotterdam resta sicuramente l'avversario più eminente e riconosciuto. Anche se inizialmente sensibile ai motivi ispiratori della riforma, Erasmo non condivide le idee sviluppate dal riformatore e nel 1524 attacca il nucleo centrale della sua dottrina pubblicando l'opera filosofica De libero arbitrio, che riceverà una risposta di Lutero l'anno successivo, nel trattato De servo arbitrio.  

I progressi della della stampa amplificano questa guerra ideologica che si sviluppa in tutta Europa attraverso vere e proprie battaglie intellettuali: opuscoli, trattati e dissertazioni abbondano su tutti i temi principali di confronto. I cattolici accusano i protestanti di seguire un'ispirazione diabolica, colpendo in particolare il matrimonio dei sacerdoti. Questi ultimi invece attaccano gli abusi del clero e le superstizioni promosse dalla Chiesa di Roma, arrivando a descrivere la messa come un'"idolatria pubblica", in quanto svuotata completamente del genuino messaggio del Vangelo. 

Ignazio di Loyola
In questo clima generale, trova particolare importanza il momento in cui l'ufficiale spagnolo Ignazio di Loyola a seguito di una ferita procurata in battaglia si ferma in una lunga convalescenza nella quale ha modo di consacrare la propria vita a Dio. Una volta guarito compie un pellegrinaggio a Gerusalemme e, tornando in patria, perfeziona la sua formazione nelle università spagnole. Nel 1534 a causa di un voto, Ignazio fonda un ordine religioso i cui membri sono chiamati a prestare una particolare ubbidienza al papa. Nel 1540 Paolo III approva lo statuto della Compagnia di Gesù. Reclutati con attenzione ed educati con cura, i gesuiti manifestano un grande zelo missionario diffondendo la fede nei paesi extraeuropei e successivamente combattendo senza tregua gli eretici in Europa. 

Nel 1556, alla morte di Loyola, la Compagnia conta almeno mille membri e numerosi collegi. 

Il Concilio di Trento
Contemporaneamente, Papa Paolo III dedica tutte le sue energie alla battaglia contro il protestantesimo, nomina nuovi cardinali, procede a rinnovare la Chiesa stessa costituendo una commissione di inchiesta sugli abusi e riformando il tribunale dell'Inquisizione. Nel 1535 convoca un concilio atteso da tempo, che inizierà a tutti gli effetti dieci anni più tardi, a Trento. Il concilio compie un enorme lavoro teologico e disciplinare, condanna le tesi protestanti, riafferma la tradizione apostolica e ribadisce il ruolo della Chiesa come unico interprete della Sacra Scrittura. Mantiene i sette sacramenti, specificando che devono essere somministrati solo da un sacerdote o da un vescovo. Sul tema dell'eucarestia il concilio condanna tanto le idee di Lutero quanto quelle di Zwingli, cementando la dottrina della transustanziazione, ossia della reale presenza del corpo e del sangue di Cristo che si sostituisce agli elementi del pane e del vino. Ogni decisione viene precisata in una serie di pubblicazioni: l'Indice dei libri proibiti, un Catechismo, un Breviario e un Messale. Il Concilio di Trento rappresenta a questo punto una vera e propria "Riforma cattolica", che viene tuttavia accettata con freddezza da alcune regioni cattoliche dell'Impero. Il nuovo assetto della Chiesa cattolica romana presenta una notevole espansione missionaria e un'intensa vita mistica e spirituale.  

Nel 1547 l'imperatore Carlo V impone militarmente il rito cattolico in tutta la Germania. Quasi quattrocento pastori sono costretti all'esilio, ma nel 1552 i prìncipi protestanti formano una nuova alleanza militare ottenendo l'appoggio del nuovo re di Francia: Enrico II. Grazie a questo sviluppo essi ottengono una nuova vittoria sancita nel 1555, quando il successore di Carlo V deve firmare la pace Augusta, in cui riconosce l'esistenza legale di due confessioni religiose nell'Impero: la Chiesa cattolica e la Chiesa luterana. In Francia tuttavia inizia un tragico periodo di persecuzione dei protestanti. In Italia la Controriforma incontra una scarsa opposizione, in quanto le idee luterane e calviniste erano rimaste confinate in ristretti circoli intellettuali. Questo però non evita una riorganizzazione dell'Inquisizione romana particolarmente attiva in Italia e Spagna, tanto da far affermare a un cattolico nel 1557:
"Se Gesù Cristo tornasse sulla terra verrebbe condannato al rogo".

Bibliografia

La Riforma
Lutero, Calvino e i protestanti. Olivier Christin. Ed. Universale Electa/Gallimard

Teologia Cristiana. Alister E. McGrath. Ed. Claudiana 

lunedì 2 dicembre 2013

Giovanni Calvino: il dottore della Riforma

Giovanni Calvino nasce a Noyon, in Francia, nel 1509, vent'anni dopo Lutero. A dodici anni riceve un premio beneficiario ecclesiastico che gli permette di continuare gli studi umanistici di filosofia e diritto. Conseguito il diploma in arti liberali, intorno al 1528 si trasferisce a Orléans per studiare nell'Università cittadina. Nel 1532 pubblica il suo primo scritto su argomenti non religiosi. Nello stesso anno consegue la laurea in diritto civile. 

Non si conosce con esattezza il preciso momento in cui Calvino aderisce alla Riforma, ma uno dei momenti più importanti a questo riguardo rimane sicuramente quando, nel novembre del 1533, il nuovo rettore dell'Università di Parigi riprende alcune idee luterane in un suo discorso preparato assieme a lui. Le conseguenze furono tanto immediate da costringerlo ad abbandonare la capitale di tutta fretta. Nel maggio del 1534 Calvino rompe definitivamente con la Chiesa di Roma rinunciando ai suoi benefici.

Dopo alcuni mesi, a causa della repressione contro i protestanti, Calvino lascia la Francia e si reca a Strasburgo e successivamente a Basilea. Qui, nel 1536, pubblica l'Istituzione della religione cristiana. Tradotto in francese dallo stesso Calvino nel 1541, il libro riveste il doppio ruolo di trattato dottrinale e manuale per il cristiano. Il libro viene sviluppato ulteriormente negli anni successivi, accogliendo gran parte delle idee di Lutero e Zwingli, ma rielaborate in una sintesi vigorosa e chiara, piena di accenti molto personali. Questo testo riprende tutti i temi essenziali della Riforma: l'autorità assoluta delle Scritture, la caduta totale dell'uomo schiavo del peccato ed incapace di desiderare la propria salvezza, la giustificazione gratuita grazie a Cristo unico mediatore. Nelle edizioni successive tuttavia, emergono delle prese di posizione inedite rispetto ai pensieri degli altri riformatori. Calvino infatti inizia a rifiutare il pensiero che la cena del Signore sia unicamente simbolica - come professava Zwingli - ma rifiuta anche la credenza che nel pane e nel vino ci siano la presenza fisica del corpo e del sangue di Cristo - come affermava la posizione luterana -. Sviluppa inoltre notevolmente il tema della predestinazione, che verrà definito nel suo Trattato sulla predestinazione del 1552, in cui afferma che Dio ha stabilito all'atto della creazione e per l'eternità gli eletti e i dannati. I temi ecclesiologici invece per essere approfonditi rispetto all'Istituzione dovranno aspettare che il riformatore si trasferisca a Ginevra. 



Nel 1536 infatti, Guillam Farel convince Calvino a fermarsi a Ginevra, pronta ad adottare la Riforma sotto la protezione militare di Berna. Dopo un periodo di forti opposizioni da parte del ceto dirigente, nel 1541 un mutamento politico riconduce al potere i partigiani di Farel. Calvino dopo aver posto alcune condizioni, accetta di trasferirsi qui definitivamente. Nello stesso anno egli redige gli Ordinamenti ecclesiastici dove definisce la struttura della nuova Chiesa e i suoi rapporti con il potere politico. Calvino distingue quattro ministeri: pastori, dottori, anziani e diaconi. Al vertice pone il Concistoro, composto da anziani e pastori incaricati di vegliare sui fedeli ed ammonire i dissidenti. Il Concistoro interviene contro le superstizioni, i libri papisti, i libertini, blasfemi, ubriaconi, le prostitute, bandisce il lusso e il teatro profano. Ottiene in un secondo tempo anche il diritto di scomunica, portando questa nuova struttura ad essere contemporaneamente comunitaria e indipendente. C'è da sottolineare il fatto che la Chiesa nascente viene concepita come Chiesa di popolo (e quindi composta da tutti i cittadini) e non come Chiesa professante (quindi composta solo da credenti professanti). L'opera di Calvino per questo motivo viene a volte ritenuta come vero e proprio fondamento di una civilità.

Nel 1553 il medico umanista spagnolo Michele Serveto, negando il mistero della Trinità viene perseguitato dell'Inquisizione. Fugge dalla Spagna e dalla Francia ma commette l'errore di rifugiarsi a Ginevra. Nell'ottobre di questo stesso anno viene arrestato, processato e condannato al rogo per eresia.


Nel 1559 Giovanni Calvino fonda un'accademia per la formazione dei pastori, mirando ad una diffusione della sua dottrina in tutta Europa. Negli anni successivi questa diventerà un'importante centro missionario influenzando diverse nazioni tra cui Olanda (grazie a Pierre Brully e Guy de Brès), Scozia (grazie a John Knox, ex sacerdote convertito al calvinismo), Inghilterra (iniziando dalle decisioni di re Enrico VIII) e Francia (grazie ai diretti missionari di Ginevra). Velocemente, un primo sinodo nazionale delle chiese riformate di Francia convalida la decisione di adottare il modello dottrinale calvinista, che prende progressivamente piede nell'intera nazione.


Giovanni Calvino predica per l'ultima volta il 6 febbraio del 1564, gravemente debilitato dalla gotta. Il 28 aprile dello stesso anno saluta i pastori con un discorso nel quale ripercorre i travagli della sua vita. Muore il 27 maggio 1564, e viene sepolto in una tomba anonima secondo il suo stesso desiderio, affinché le sue spoglie non potessero essere oggetto di un culto che aveva sempre deprecato. 

Bibliografia

La Riforma
Lutero, Calvino e i protestanti. Olivier Christin. Ed. Universale Electa/Gallimard

Teologia Cristiana. Alister E. McGrath. Ed. Claudiana
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