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domenica 18 febbraio 2018

Dal senso di abbandono allo spirito di figliolanza

















Nota: Questi sono gli appunti di un sermone che ho predicato il 30 luglio 2017 nella Missione Oikos di Como.

Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Filippesi 2:5-10

Come abbiamo appena letto, pur essendo in forma di Dio Gesù non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente. Soffermandoci a riflettere possiamo domandarci: perché Gesù riuscì a non considerare la propria divinità qualcosa da preservare gelosamente ad ogni costo? 

Una possibile risposta è perché egli era dall'eternità certo della propria condizione e dell'amore infinito ricevuto dal Padre e ricambiato a lui.

Noi però non siamo in questa condizione, anzi, per natura noi nasciamo con una frattura nella relazione con Dio e portiamo nel nostro DNA il senso di abbandono dei nostri progenitori Adamo ed Eva. Provate a pensare come si dovessero sentire, quando furono messi alla porta dal giardino di Eden. Coperti da una pelliccia, soli, con la consapevolezza di aver tradito l'Onnipotente Dio Creatore. I primi giorni, i primi mesi non dovettero essere per nulla semplici. Il racconto biblico ci presenta questa descrizione:

Così egli scacciò l'uomo e pose a oriente del giardino d'Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell'albero della vita.

Genesi 3:24

Mentre se ne andavano, Adamo ed Eva hanno senza dubbio guardato alle spalle e hanno potuto vedere i cherubini con una spada di fuoco a guardia dell'ingresso e a segno del loro tradimento. Ebbene, possiamo dire - considerato il dato biblico, nonché quello esperienziale - che questa stessa condizione di separazione è restata nella loro discendenza, arrivando fino a noi. Ma il proposito di Dio non è mai stato quello di vivere lontano dall'uomo, anzi, è stato quello di vivere INSIEME a lui. Ed è per questo che Gesù ha portato ad effetto la volontà del Padre, prendendo su di sé "l'iniquità di tutti noi" (Is. 53:6). Nel vangelo di Matteo in relazione al momento della crocifissione leggiamo:

E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lamà sabactàni?», cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Costui chiama Elia».
Matteo 27:46, 47

Sulla croce Gesù ha preso su di sé tutto l'abbandono di Dio, tutta la sua ira. E lo ha fatto al posto nostro. Successivamente, dopo la resurrezione e l'ascensione, avendo vinto ogni disubbidienza con la sua ubbidienza fino alla morte di croce, Dio ha potuto mandare il Consolatore, lo Spirito Santo nel cuore dei credenti.

E voi non avete ricevuto uno spirito di servitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: «Abbà! Padre!»  Lo Spirito stesso attesta insieme con il nostro spirito che siamo figli di Dio. Se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui.

Romani 8:15-17

Quale meraviglia! Vediamo che in questi eventi si è effettuato un vero e proprio scambio reso possibile dalla pura misericordia e grazia di Dio. In origine, dopo il peccato adamitico, i figli di Adamo dicevano «Elì, Elì, lamà sabactàni?» (Salmo 22:1), mentre Gesù poteva dire «Abbà! Padre!». Ma  nel cuore del Padre c'era tristezza per la solitudine che l'uomo aveva causato con la propria disobbedienza. Allora il Padre, in accordo con il Figlio e lo Spirito ha decretato una vera e propria sostituzione. Ed è stato Gesù a dire «Elì, Elì, lamà sabactàni?» affinché noi potessimo dire per mezzo dello Spirito «Abbà! Padre!».

È avvenuto uno scambio: Gesù ha preso (momentaneamente) la nostra separazione da Dio, così che noi potessimo ricevere la sua figliolanza (per sempre). Questa è una realtà spirituale che è già decretata e avvenuta, ma della quale in quanto credenti dobbiamo prendere piena consapevolezza. Perché è su questo presupposto e con questa cognizione e con questo Spirito che noi possiamo a nostra volta avere in noi lo stesso sentimento di Cristo Gesù. Da separati da Dio non potremo mai avere la possibilità di essere umili, perché ne va della nostra sopravvivenza! Ma da figli, noi abbiamo tutta la dignità per poter percorrere la via dell'umiltà senza sentirci inferiori perché lo Spirito dentro di noi ci ricorda chi siamo, e ce lo ricorda anche quando siamo impopolari, quando facciamo lavori umili, quando nessuno ci capisce, quando facciamo delle rinunce per amore. Solo vivendo quotidianamente la nostra realtà di figli amati, possiamo essere più simili al Figlio. Dobbiamo perciò abbandonare ogni senso di competizione, ogni pretesa di superiorità o complesso di inferiorità, ogni difesa e ogni diritto. Ma dobbiamo farlo in un solo ed unico modo: con la comunione, con la forza e con “l'identità famigliare” dello Spirito Santo. Per questo motivo, oggi possiamo chiedere a Dio una fresca rivelazione sul suo grande amore, sulla nostra figliolanza e sulla comunione con lo Spirito in noi. Per questo motivo possiamo rialzarci se siamo caduti e riprendere il nostro percorso con una rinnovata forza e determinazione comprendendo meglio chi siamo e dove stiamo andando.

Il tutto per la nostra riconciliazione, riabilitazione e salvezza; per il sacrificio di Cristo, per la gloria di Dio.

domenica 11 febbraio 2018

Nessuno ha mai visto Dio, ma...




I. IL TESTO

Nel prologo introduttivo del Vangelo secondo Giovanni incontriamo presto questa considerazione di carattere centrale per la comprensione cristiana della propria identità, del giudaismo, dell'Antico Testamento e - in ultima analisi - di ogni aspetto della vita che ci circonda:

Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere.
Giovanni 1:18 

Da un punto di vista letterario, identificandolo come parte dell'inno originale del prologo, possiamo comporre questo testo in versi nel seguente modo:1

Nessuno ha mai visto Dio;
è l'Unigenito Dio,
sempre accanto al Padre,
che Lo ha rivelato.

In una struttura a chiasmo possiamo accostare in effetti il fatto che nessuno ha mai visto Dio con il fatto che l'Unigenito Dio lo ha fatto conoscere/rivelato secondo un'efficace contrapposizione. Il secondo accostamento invece, quello più interno, riguarda il fatto che l'Unigenito Dio è accanto/nel seno del Padre. Naturalmente quest'ultimo aspetto è quello centrale, che legittima de facto quello più esterno: l'Unigenito cioè può far conoscere il Padre proprio perché è nel suo seno/accanto a lui. "L'Unigenito Dio" è la lettura data da alcuni dei migliori manoscritti greci (inclusi P66 e P75), mentre altri manoscritti riportano "L'Unigenito Figlio".2 Il significato teologico in ogni caso è il medesimo in quanto nel brano precedente Giovanni ha già identificato la Parola con il Figlio, e il Figlio con Dio.3 

Entrando adesso nello specifico del senso teologico possiamo avvicinarci meglio ai suoi due aspetti fondamentali, per poter tracciare brevemente alcune principali conseguenze.

II. "TU NON PUOI VEDERE IL MIO VOLTO" 
 
Nell'affermazione che nessuno ha mai visto Dio, Giovanni pensa probabilmente al seguente episodio veterotestamentario:4

Mosè disse: «Ti prego, fammi vedere la tua gloria!» Il SIGNORE gli rispose: «Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il nome del SIGNORE davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà». Disse ancora: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere». E il SIGNORE disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».
Esodo 33:18-23


L'uomo non può vedere il Signore e vivere, al massimo può vederne "le spalle". Questa indicazione è radicata a fondo nella fede giudaica, sebbene ci siano nelle Scritture diverse eccezioni. Tali eccezioni però riguardano teofanie antropomorfiche, ossia delle apparizioni di Dio in forma umana per poter comunicare in modo efficace un determinato messaggio. Questo è prova del fatto che è intenzione di Dio istruirci su cose nelle quali l'uomo non ha conoscenza diretta (come i suoi attributi) in termini di realtà a noi noti.5 Lo scopo di tutto questo è portare a una crescita di consapevolezza spirituale, ma proprio per le caratteristiche di questa forma di comunicazione dobbiamo stare attenti ai possibili fraintendimenti delle parole, come è noto da tempo per i teologi. Nel linguaggio umano infatti le parole sono nate per identificare realtà visibili e tangibili. Se però, come nel nostro caso, utilizziamo alcune parole per identificare realtà invisibili come quella di Dio dobbiamo comprendere che lo possiamo fare per assomiglianza più che per esattezza. Diviene quindi necessario un discernimento per comprendere il senso oltre la forma. Se il testo di Genesi riporta che Dio camminava nel giardino - per fare un esempio (cfr. Gen. 3:8) - questo non vuol dire che egli ha le gambe, ma piuttosto che era lì presente. Nessuno ha mai visto Dio, e per questo motivo dobbiamo essere attenti a comprendere il senso di un testo (anche biblico) o discorso teologico, realizzando i termini di questa difficoltà intrinseca.

Di per sé questa è una brutta notizia, mettendo davanti ai nostri occhi una limitazione pesante e inviolabile. Ma a questa notizia il versetto che stiamo esaminando ne fa seguire un'altra, decisamente migliore, che la ridefinisce secondo un nuovo e inedito punto di vista.  

III. COLUI CHE LO HA FATTO CONOSCERE

Nella continuazione infatti leggiamo un ulteriore elemento che dissolve molta della tensione generata dalla affermazione precedente: l'Unigenito Dio nel seno del Padre è colui che lo ha fatto conoscere. Questo è l'innovativo contributo che Giovanni - e il primo cristianesimo insieme a lui - dà al problema. Nessuno ha mai visto Dio - è vero - ma Gesù Cristo è colui che lo ha fatto conoscere, in virtù della sua vicinanza a lui. Gesù diviene quindi la chiave per comprendere al meglio Dio Padre, anzi, ancora di più: egli diviene la nuova prospettiva attraverso la quale ri-considerare non solo l'identità di Dio, ma anche l'Antico Testamento, noi stessi (in quanto sue creature) e tutto il mondo che ci circonda (in quanto sua creazione). 

Aprendo un breve approfondimento testuale, possiamo vedere che le diverse traduzioni italiane "fatto conoscere" e "rivelato" rendono il verbo greco exēgeomai che significa generalmente "narrare, riferire, informare".6 Nel nostro specifico contesto questo verbo descrive quindi l'attività di condividere informazioni ottenute per esperienza diretta. Come fa notare Bosetti, questa "narrazione del Padre" viene descritta quasi come una esegesi, ossia come una interpretazione, che però in questo caso risulta essere ultima e definitiva.7 L'Unigenito Dio che è nel seno del Padre è l'unico che lo ha visto e per questo motivo lo può spiegare e raccontare con una precisione unica. Questa è la consapevolezza di Giovanni e dei primi cristiani e questa deve essere anche la nostra consapevolezza ventuno secoli dopo di loro. Finché saremo su questa terra conosceremo e profetizzeremo sempre e solo in parte (cfr. 1 Cor. 13:9), ma gli insegnamenti di Cristo e il significato del suo sacrificio rimarranno come garanzia della comprensione il più vicina possibile per quanto ci è consentito alla realtà del Padre. E di certo, tutto questo non è poco, e non è per uno scopo da poco conto. 

Ecco perché la figura vivente di Gesù, spiritualmente sempre con noi (cfr. Mt. 28:20), non può che essere il centro costante di ogni esperienza cristiana. Ecco perché i suoi insegnamenti consolidati nel Nuovo Testamento non possono che essere la nostra guida in ogni aspetto della vita. Ecco perché egli, in quanto Parola Vivente, può aiutarci a comprendere al meglio la Parola di Dio scritta (cfr. Lc. 24:27). Il Vangelo di Giovanni è stato scritto "affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome". Nel suo nome possiamo avere vita, nel suo nome possiamo tornare anche noi al Padre (cfr. 2 Cor. 5:20) per poterlo conoscerlo perfettamente e direttamente nell'ultimo giorno. Quel giorno finalmente:

Non ci sarà più nulla di maledetto. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell'Agnello; i suoi servi lo serviranno, vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome scritto sulla fronte.
Apocalisse 22:3-4
IV. CONSIDERAZIONI FINALI

In questo breve percorso racchiuso dal singolo versetto di Gv. 1:18 possiamo identificare due essenziali aspetti della testimonianza cristiana. Il primo riguarda il fatto che nessuno ha mai visto Dio, il secondo riguarda il fatto che solo il Figlio lo conosce intimamente e solo lui lo ha potuto rivelare/raccontare/far conoscere nel modo migliore. In questa esclusività alcuni esegeti hanno letto una possibile polemica contro coloro che rivendicavano altri modi per conoscere intimamente il Padre.8 Questo aspetto è probabile per l'epoca dell'autore e resta di interesse attuale anche per i nostri tempi. La centralità di Cristo compresa e predicata in età apostolica e riscoperta durante la Riforma del XVI secolo con il motto Solus Christus è stato infatti più volte osteggiato per motivi diversi e più volte difeso dalle comunità cristiane che ne hanno esperienza diretta. Tuttavia, questo principio deve anche essere vissuto con la consapevole limitatezza della dialettica umana e con l'anelito al tempo futuro nel quale finalmente Dio sarà tutto in tutti (1 Cor. 15:28) e sarà finalmente visibile nella sua perfezione, al di fuori dei limiti dell'età presente.




[1] vedi: Raymond E. Brown, Giovanni: commento al vangelo spirituale, 2005, Cittadella Editrice.
[2] Id. Ibid
[3] A.A.V.V., Grande commentario biblico Queriniana, I rist., 1974, Brescia, Queriniana, p. 1379.
[4] Id. Ibid. 
[5] Wayne Grudem, Teologia sistematica, Chieti, 2014, Ed. GBU, p. 197. 
[6] Horst Balz, Gerhard Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia Editrice, 2004 (unico volume), 1252. 
[7] Elena Bosetti, Vangelo secondo Giovanni (cc. 1-11), Edizioni Messaggero Padova, 2013, p. 30. 
[8] H. Balz, G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia Editrice, 2004 (unico volume), 1252.

domenica 4 febbraio 2018

Amare il prossimo: il secondo comandamento

Nota: questi sono gli appunti di un sermone predicato nella Missione Oikos di Como il 25 giugno 2017.

I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» Gesù gli disse: «"Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Questo è il grande e il primo comandamento. 
Il secondo, simile a questo, è: "Ama il tuo prossimo come te stesso". Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti».
Matteo 22:34-40


Settimana scorsa abbiamo visto leggendo questo brano che ai comandamenti di amare Dio e il prossimo sono "appesi" tutta la legge e i profeti, ossia è “appesa” tutta la Bibbia. Se non amiamo Dio e/o se non amiamo il prossimo, tutta la Bibbia cade, perché non applicata. Per questo motivo dobbiamo essere sempre vigili e attenti a vivere personalmente entrambe queste realtà. 

Se però settimana scorsa ci siamo concentrati sul comandamento di amare Dio, quest'oggi ci concentreremo invece sul secondo comandamento, che è appunto "Ama il tuo prossimo come te stesso". La prima domanda che ci possiamo fare è: chi è il nostro prossimo? Il nostro prossimo è chi ci è più vicino. Dio non ci comanda di amare genericamente tutta l'umanità, ma di amare chi ci è più vicino allo stesso modo di come amiamo noi stessi. Quindi i nostri genitori, i nostri fidanzati, le nostre fidanzate, mariti, mogli in primo luogo. Fratelli e sorelle della chiesa, amici, colleghi di lavoro in secondo luogo. E poi, tutte le altre persone che il Signore mette quotidianamente sulla nostra strada. Ognuna di queste persone infatti deve essere oggetto del nostro amore. Sulla base di questo comandamento cristiano, è possibile partire per innumerevoli riflessioni diverse. In questa occasione però vorrei vedere le implicazioni di questo insegnamento nel contesto della comunità cristiana, in modo biblico e pratico.

Sappiamo che l'apostolo Paolo ha scritto ai corinzi: Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente (1 Cor. 13:2-3). Fermiamoci a riflettere: tutto questo non può che stupire! Paolo sta dicendo che se io avessi il dono profetico più alto del mondo ma non avessi amore (interesse, sensibilità) per chi mi è vicino, non sarei nulla. Se avessi fede tale da spostare i monti ma non avessi amore (cura, premura), non sarei nulla. Se vendessi tutti i miei beni e andassi per le vie della mia città ad aiutare i senzatetto ma dimenticando di essere presente e di aiuto per chi mi è più vicino....non sarei nulla. Questa considerazione è tremenda. E' la peggiore notizia che potessimo ricevere. Perché non c'è scampo: ogni aspetto della nostra vita personale agli occhi di Dio è promossa o bocciata non tanto per l'esercizio dei nostri talenti/doni personali o della nostra condotta pubblica, ma per un unico fattore: l'amore per chi ci è vicino. Al contrario, paradossalmente possiamo non avere un riconosciuto ministero ecclesiastico, possiamo non avere doni dello Spirito ma amando il nostro vicino possiamo essere approvati da Dio anche se siamo sconosciuti nella società. Dato questo fatto, diviene imperativo comprendere come possiamo identificare questo amore. Questa parola copre un'infinità di significati come sappiamo, ma oggi vorrei concentrarmi su poche chiare e pratiche linee guida che possono aiutarci a vivere nel migliore dei modi la nostra realtà di chiesa locale.

1) Dobbiamo prendere coscienza del fatto che siamo diversi. Abbiamo caratteri, lavori, formazioni scolastiche, hobby, gusti alimentari, età completamente diverse gli uni per gli altri. In ogni chiesa i membri sono eterogenei, e questo è normale. Se non avessimo lo stesso amore per Dio (primo requisito) forse non ci saremmo mai neanche incontrati, figuriamoci aver stretto amicizie! Pensiamoci bene: è così. Quello che abbiamo in comune non sono gusti, ma è la stessa fede e lo stesso vibrante amore per Dio. Quando siamo focalizzati su di lui, soprattutto in preghiera, ogni cosa si dissolve e pur essendo molti in realtà siamo UNO. Quando però consideriamo le scelte personali degli altri, i comportamenti degli altri, le idee degli altri....non solo torniamo ad essere numerosi ma facciamo anche scintille ad ogni dialogo! E anche questo è normale:  
 
Il ferro forbisce il ferro; 
così un uomo ne forbisce un altro. 
Proverbi 27:17  

Le asperità dei caratteri si smussano vicendevolmente. Ma dobbiamo imparare a sottomettere i nostri caratteri al carattere di Cristo che è già in noi, e che con fatica sta cercando di venire fuori. Se tutti ci impegniamo in questo, litigheremo e discuteremo, ma ci chiariremo sempre, e ci sosterremo realmente come fratelli e come sorelle, come una famiglia. 

2) Si, ma oltre che andare in preghiera davanti al Signore nei momenti di conflitti, cosa possiamo fare di pratico per venirci incontro? Tre cose: dialogare, ascoltare attivamente, comprendere l'altro.

A) Il dialogo. Sapete, il dialogo è l'arte più difficile di questo mondo. Noi siamo abituati a parlare tanto senza dire niente. Ci sentiamo a disagio ad esprimere quali sono i nostri reali punti deboli o le nostre battaglie personali, perché dicendole a qualcuno ci rendiamo vulnerabili. Non è possibile di punto in bianco confidare tutti i segreti del nostro cuore a chi è seduto al nostro fianco, ma possiamo senza dubbio impegnarci a conquistare la confidenza dell'altro con la nostra fedeltà, e a esporci, per permettere agli altri di capire la nostra situazione (Salmo 15:2, dire la verità all'altro, come la si ha nel cuore).

B) L'ascolto attivo.  Vi è mai successo di parlare con qualcuno che palesemente aspetta solo che voi finiate per iniziare a dire lui quello che ha in mente? E' spiacevole. Ma a livelli diversi è un'attitudine dentro ciascuno di noi, perché ciascuno di noi vuole essere protagonista. Hanno costruito  Internet 2.0 proprio su questo concetto! Tutti vogliono esprimere il proprio pensiero, anche sopra quello degli altri. Ma Dio ci chiama a dare agli altri attenzione. Ad ascoltare attivamente quello che il prossimo ci sta dicendo, rinunciando a parlare con chi ci è più gradito in quel momento, rinunciando al cellulare, rinunciando ad andare a casa subito dopo la celebrazione domenicale. E' un sacrificio. Ma essere sacrifici viventi, santi e graditi a Dio significa anche questo. Ascoltiamo con interesse e scopriremo i tesori nei cuori dell'altro (Giacomo 1:19 lenti a parlare, lenti all'ira ma sempre pronti all'ascolto).

C) La comprensione. Se impariamo a dialogare e ad ascoltare meglio, impareremo anche a comprendere meglio l'altro. Comprenderlo non vuol dire giustificare i suoi errori o peccati, ma capire le sue difficoltà e spesso anche le circostanze che hanno portato a determinati errori o offese. Imparare a metterci “nei panni degli altri” è una risorsa utile e preziosa per ogni cristiano, perché riduce il giudizio, i sentimenti di superiorità e promuove invece la solidarietà di Cristo. Dopo aver compreso l'altro si può aiutarlo. Anche solo ad esprimere la nostra vicinanza a parole, o con piccoli gesti. E questo fa la differenza.
 
3) Avere aspettative sobrie sulle altre persone. Spesso abbiamo determinate aspettative sulle altre persone senza neanche informarle dei nostri pensieri e senza capire il loro punto di vista. E quando queste vengono disattese, ne siamo frustrati. Ebbene, non possiamo demandare tutto al fatto che l'altra persona “ci deve arrivare da sola”, perché sulla base di questo motto sono finite le migliori relazioni. 
 
La speranza insoddisfatta fa languire il cuore,
ma il desiderio realizzato è un albero di vita.
Proverbi 13:12  
 
E' necessario esporci, condividere cosa ci aspettiamo dagli altri in modo che lo sappiano, e capire qual è la situazione dell'altra persona e se può o meno realizzare la nostra aspettativa. Ci accorgeremo che non è sempre così, e in questo caso non dobbiamo cadere nel tranello dell'accusa. Se l'altra persona non può darci quello che ci aspettiamo, prendiamone atto senza recriminare. E' così e basta, senza cattiveria. Non possiamo mettere in croce l'altro per lacune e mancanze, per un semplice fatto: Cristo è già stato messo in croce proprio per quelle lacune e mancanze. Così come per le mie. Quindi prendiamone atto, senza giudicare o accusare: siamo tutti “work in progress” per il Signore.

4) Perdoniamoci a vicenda, perché questo è l'unico modo in cui poter vivere in famiglia. E ogni chiesa locale è una famiglia.

Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi.
Colossesi 3:13 

Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato.
Luca 6:37 

Ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
Matteo 6:15 

Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe.
Marco 11:25  

Queste condizioni sono il nostro essere chiesa. Non possiamo partire che da qui, e non possiamo tornare che qui. La famiglia spirituale nella quale siamo è la casa del Signore e noi dobbiamo preservarla al meglio delle nostra possibilità. Essa è la famiglia che il Signore onora con la sua presenza, è la casa nella quale voglio e vogliamo abitare.
 
E se vi sembra sbagliato servire il SIGNORE, scegliete oggi chi volete servire: o gli dèi che i vostri padri servirono di là dal fiume o gli dèi degli Amorei, nel paese dei quali abitate; quanto a me e alla casa mia, serviremo il SIGNORE».
Giosuè 24:15  
 
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