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domenica 15 febbraio 2015

Le sette lettere dell'Apocalisse (parte VII): la chiesa di Laodicea

«All'angelo della chiesa di Laodicea scrivi:
Queste cose dice l'Amen, il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio:"Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca. Tu dici: 'Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!' Tu non sai, invece, che sei infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo. Perciò io ti consiglio di comperare da me dell'oro purificato dal fuoco, per arricchirti; e delle vesti bianche per vestirti e perché non appaia la vergogna della tua nudità; e del collirio per ungerti gli occhi e vedere. Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti. Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me. Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono, come anch'io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese"».

Apocalisse 3:14-22 

Dopo le lettere destinate agli angeli delle chiese di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi e Filadelfia, troviamo un'ultima lettera, indirizzata all'angelo della chiesa di Laodicea. Questa lettera chiude i destinatari del libro annunciati fin dall'inizio dello scritto (1:11), ma termina anche la prima sezione del libro stesso: tutto ciò che verrà dopo infatti, sarà vissuto da Giovanni soltanto dopo essere entrato "per una porta aperta nel cielo". Laodicea rappresenta la destinazione finale di questo ipotetico percorso che, partendo dall'isola di Patmos - dove Giovanni riceve la visione - , attraversa di fatto tutta l'Asia Minore. 

La città di Laodicea sorgeva a meno di venti chilometri da quella di Colossi. La sua economia era prosperosa grazie alle attività bancarie e alla rinomata scuola di medicina, ma il terremoto del 60/61 d.C. distrusse gran parte delle strutture, impegnando tutta la popolazione ad una alacre ricostruzione. La chiesa di Laodicea molto probabilmente era stata fondata - al pari di quella di Colossi - da Epafra, e le poche informazioni neotestamentarie che abbiamo a riguardo si trovano proprio nella lettera di Paolo ai Colossesi. Questa lettera viene nominata dalla tradizione cristiana come una delle "lettere della prigionia", in quanto scritta dall'apostolo durante la sua prigionia a Roma, intorno al 62 d.C. In questa occasione dunque, Paolo scrisse ai colossesi:

Noi ringraziamo Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, pregando sempre per voi, perché abbiamo sentito parlare della vostra fede in Cristo Gesù e dell'amore che avete per tutti i santi, a causa della speranza che vi è riservata nei cieli, della quale avete già sentito parlare mediante la predicazione della verità del vangelo. Esso è in mezzo a voi, e nel mondo intero porta frutto e cresce, come avviene anche tra di voi dal giorno che ascoltaste e conosceste la grazia di Dio in verità, secondo quello che avete imparato da Epafra, il nostro caro compagno di servizio, che è fedele ministro di Cristo per voi.
Colossesi 1:3 

Epafra, che è dei vostri ed è servo di Cristo Gesù, vi saluta. Egli lotta sempre per voi nelle sue preghiere perché stiate saldi, come uomini compiuti, completamente disposti a fare la volontà di Dio. Infatti gli rendo testimonianza che si dà molta pena per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Ierapoli. Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema. Salutate i fratelli che sono a Laodicea, Ninfa e la chiesa che è in casa sua. Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che sia letta anche nella chiesa dei Laodicesi, e leggete anche voi quella che vi sarà mandata da Laodicea.
Colossesi 4:12-16

Il compagno di ministero dell'apostolo Paolo, ossia Epafra, predicò la grazia di Dio in verità a Colossi, lottando sempre nelle preghiere e dandosi molta pena anche per quelli di Laodicea e di Ierapoli. Anche quest'ultima città risiedeva molto vicina a Laodicea, costituendo quindi assieme ad essa e a Colossi, una regione geografica evangelizzata e organizzata a livello ecclesiastico proprio da Epafra. Colossi, Laodicea e Ierapoli dunque, erano città che avevano conosciuto il vangelo grazie al ministero di questo servo di Cristo Gesù. Fra le tre chiese però, soltanto Laodicea riceve una lettera dal Signore, al termine del I secolo. Non sappiamo molto altro su questa comunità, e ancor meno conosciamo quello che poteva essere successo negli anni successivi alla missiva di Paolo, fino al tempo in cui Giovanni ricevette la visione, scrivendo sotto dettatura questa lettera. I versetti conclusivi di questo terzo capitolo dell'Apocalisse di Giovanni, restano dunque gli unici elementi per comprendere lo stato di questa chiesa, e il relativo avvertimento per tutti noi, a beneficio per l'intera Chiesa di Cristo. 

Come descritto negli studi precedenti, le sette lettere presentano tutte un medesimo schema: la presentazione di Cristo con un titolo speciale, la constatazione degli aspetti positivi della chiesa, la denuncia di quelli negativi, l'esortazione finale e la promessa specifica per i perseveranti. La formula "Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese", chiude tutte le lettere. Questo testo particolare però presenta un'eccezione facilmente riscontrabile, condivisa con la lettera alla chiesa di Sardi. Per entrambe le comunità infatti, non vi è alcun apprezzamento ma soltanto l'esortazione al ravvedimento. 

A loro, Gesù Cristo si presenta con tre titoli diversi: l'Amen, ossia il realizzatore di tutte le promesse divine, il testimone fedele e veritiero del Padre (cfr. Gv 12:50) e il principio della creazione di Dio (cfr. Col 1:15). Cristo è l'immagine
del Dio invisibile e con questa autorità si rivolge alla chiesa di Laodicea. Le parole successive, come anticipato, non riguardano alcun apprezzamento ma piuttosto una grave condizione spirituale: i laodicesi infatti sono trovati dal Signore tiepidi, né freddi né ferventi. Come l'acqua è utile sia fresca (in quanto dissetante) sia bollente (per alcuni tipi di bevande, oppure per cucinare) ma tiepida è capace solo di nauseare, allo stesso modo questi credenti non erano né zelanti per il bene, né completamente persi: erano autocompiaciuti e passivi nella propria fede. E' senz'altro da notare la presenza dei ghiacciai del monte Cadmus (conosciuto oggi come Topçambaba Dağı) vicino a Colossi, e delle terme a Ierapoli: una fonte di acqua fredda ed una di acqua calda nel cui mezzo sta proprio la "tiepidezza" dei credenti di Laodicea. Per questo il Signore dichiara di sputarli come si sputa l'acqua tiepida, se nel frattempo non si ravvedono. La lettera riporta anche delle frasi pronunciate o pensate da loro: 'Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!'. Possiamo ipotizzare quindi che questa chiesa possa aver raggiunto una buona autosufficienza economica, una chiesa che in qualche modo è riuscita a raggiungere uno standard di tranquillità, magari già con un suo locale di culto e una routine liturgica avviata. Dietro a questa prosperità però si celava una pericolosissima tiepidezza spirituale. Quante chiese al giorno d'oggi si riuniscono in un locale accogliente, celebrano i loro culti settimana dopo settimana ritrovandosi però nella stessa situazione della chiesa di Laodicea? Il numero, lo sa solo il Signore, ma questa lettera è di ammonizione prima di tutto proprio per loro. Chi rientra in questa descrizione infatti, agli occhi del Signore è infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo. Una condizione di indigenza peggiore di quella del noto Bartimeo (Mc. 10:46-52): egli infatti gridò «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!», esasperato dalla sua condizione. E proprio questo è il motivo della malattia spirituale che affliggeva la comunità: al contrario, costoro erano soddisfatti della loro condizione! Il momento in cui iniziamo ad essere pienamente appagati dalle funzioni ecclesiastiche, dai nostri contributi e dalla nostra ricchezza, ebbene questo momento rappresenta il tempo in cui il nostro spirito si assopisce delegando ad altri la veglia. L'inizio dei problemi. Quel che viene consigliato ai laodicesi, è di comprare dal Signore la controparte spirituale degli elementi che abitualmente usavano: l'oro delle opere della fede al posto del metallo, le vesti di santità al posto del loro famoso tessuto nero, il collirio della vista spirituale al posto della loro pomata oftalmica. Ciò che per noi può essere oggetto di vanto molto spesso non ha alcun valore spirituale ed eterno, per questo ogni cristiano è responsabile dell'utilizzo del proprio discernimento su come costruisce la propria devozione personale e comunitaria (cfr. 1 Cor 3:9-15). La riprensione risulta essere un'espressione dell'amore di Dio, perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli (Eb 12:8). 

"Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me." L'ammonizione della lettera è accompagnata dalla vicinanza di Cristo che sta fuori alla porta della chiesa, bussando. Qualcuno riuscirà ad ascoltare e riconoscere la sua voce? Non abbiamo delle testimonianze antiche che possano raccontarci come ha reagito questa comunità alla lettera e all'intero libro dell'Apocalisse, ma questa immagine a mio avviso è probabilmente la più terribile dell'opera. Dalla grande tribolazione possiamo aspettarci terribili persecuzioni, ma mai ci aspetteremmo di trovare il Signore fuori da una chiesa che reca il suo nome sulla porta di entrata e su tutti gli innari. Cosa può esserci di più tremendo di una comunità che è così soddisfatta di sé stessa da lasciare fuori Cristo, dimenticandosi del suono della sua voce? Esiste forse una forma peggiore di idolatria, dell'adorazione della chiesa in quanto chiesa, separata dal suo naturale capo? Proprio il fatto che non ci possa essere nulla di peggio, deve essere stato uno degli indizi che hanno persuaso alcuni a vedere in questa lettera la condizione della Chiesa universale durante i tempi della fine, in cui neanche il Signore stesso sa se troverà la fede sulla terra (Lc 18:8). Tuttavia, a coloro che sono disposti ad aprire la porta (dell'assemblea) sarà concesso di cenare con Gesù, immagine di comunione ricorrente in tutta la Scrittura: la realizzazione di ciò che il sacramento della "cena del Signore" annuncia sin dalla fondazione della Chiesa. 

Il premio per questi credenti così soddisfatti di sé stessi, è di sedersi con Cristo sul suo trono, dopo essere stati svuotati proprio di sé stessi, come a suo tempo fece Gesù (Filippesi 2:7). L'umiltà, il ravvedimento e il servizio rappresentano la condizione nella quale ogni cristiano deve vivere se vuole piacere a colui che lo ha chiamato; la condizione che permette, dopo essersi umiliati sotto la potente mano di Dio, di essere sovranamente innalzati fino al suo trono. 

CONSIDERAZIONI FINALI

Questa ultima lettera raggiunge il numero sette, simbolo di completezza che in questo caso è riferito proprio alla Chiesa nella sua totalità. Come visto negli studi precedenti, le lettere dell'Apocalisse sono state interpretate in modo differente: come lettere valide solo per le relative chiese del I secolo, come lettere svincolate da qualsiasi contesto e valide per tutti, oppure come lettere descriventi in realtà le condizioni della Chiesa di Cristo nelle varie fasi della storia. Come per le altre lettere neotestamentarie, ritengo che sia corretto considerarle come Parola di Dio diretta in primo luogo alle comunità di quel tempo, e in secondo luogo indirizzata ai cristiani di ogni tempo, in quanto all'interno del canone biblico. La piaga della tiepidezza senza dubbio non ha afflitto solo i laodicesi ma è un serio pericolo per ogni comunità, quando non si impegna a vivere in continua comunione con lo Spirito Santo. 

Bibliografia:

- Raymond E. Brown, Joseph A. Fitzmyer, Roland E. Murphy, Grande commentario biblico, ed. Queriniana.

mercoledì 11 febbraio 2015

La legge, la grazia e la verità

Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia.
Efesini 2:14-16


La lettera agli Efesini viene attribuita dalla tradizione cristiana all'apostolo Paolo, individuando nella sua prigionia a Roma, intorno al 62 d.C., il tempo della sua stesura. Per questo motivo, viene associata alle "lettere della prigionia", assieme a Filippesi, Colossesi e Filemone. La chiesa di Efeso fu incoraggiata dall'apostolo Paolo durante il suo terzo viaggio missionario, come leggiamo in Atti 19. 

In questa lettera troviamo, nel secondo capitolo, un approfondimento sul fulcro della vita cristiana: la salvezza per grazia offerta tanto ai Giudei quanto agli stranieri.

Tutto inizia però dalla morte, una morte vinta dalla resurrezione del Signore, vinta da colui che è la nostra pace, colui che è riuscito ad abbattere la causa dell'inimicizia dell'uomo con Dio e la causa della separazione tra Giudei e gentili. Con un'unico sacrificio, Gesù ha riconciliato entrambi con Dio e posto in comunione gli uni con gli altri. Per questo motivo ora non vi è più Giudeo o Greco (Gal 3:28), per lo stesso motivo la Via per la salvezza è comune ed è rappresentata da una nuova cittadinanza comune a tutti i santi (Ef 2:19).

Questi pochi versetti ben riassumono quello che Paolo descrive nella lettera come un "mistero", un decreto di Dio che per lungo tempo è restato segreto (Ef 3:5). Questo mistero, è il vangelo stesso. La legge è stata data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1:17): l'Antico Testamento è il riflesso dell'autorità di Dio, della sua giustizia e della sua legislazione; ma il Signore non ha voluto rivelare soltanto questo di sé, manifestando attraverso Cristo anche la grazia e la verità, nuovi riflessi della sua sovranità. E proprio la grazia e la verità diventano nel Nuovo Testamento il volto di una nuova rivelazione. Da una parte la legge del Padre, dall'altra l'assolvimento della legge adempiuto da Cristo, e la partecipazione a questa famiglia spirituale per mezzo dello Spirito Santo (Ef 2:22). Con il Nuovo Testamento, inizia a comparire una fresca completezza. Il Figlio mostra il Padre (Gv 14:7), che manda lo Spirito Santo (14:26) che conduce le persone nella nuova famiglia spirituale che è la Chiesa. In questo processo vi è la perfezione di Dio, la perfezione della sua rivelazione, della sua salvezza, della sua sovranità. Tutto il cristianesimo si appoggia su questi presupposti spirituali, ricevendo la potenza di adempiere al grande mandato; portando la parola del regno di Dio attraverso i millenni e fino alle estremità della terra, una parola creatrice, fonte di vita. Un avanzamento del regno di Dio costante e inesorabile, che realizza la preghiera insegnata proprio da Gesù: "Padre nostro, sia fatta la tua volontà in terra come è fatta nel cielo".

mercoledì 4 febbraio 2015

"Iustitia aliena": la dottrina della giustificazione nella Riforma

Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco; poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, com'è scritto:
«Il giusto per fede vivrà».

|Lettera ai Romani 1:16,17|
Il Medioevo ha visto sorgere diversi pensieri teologici, arrivando ad avere nel XVI secolo almeno nove scuole di pensiero ben identificabili. Le più importanti erano sicuramente quelle ricondotte a Tommaso d'Aquino e Giovanni Duns Scoto, che differivano parecchio nelle loro idee anche su dottrine fondamentali come quella della giustificazione. La nascita dell'umanesimo nel frattempo risvegliava le coscienze individuali, promuovendo domande come: "personalmente, cosa devo fare per essere giustificato?". Proprio questo pluralismo dottrinale contribuiva ad alimentare confusione e frustrazione, rendendo incredibilmente difficile rispondere a domande simili, questioni apparentemente semplici ma sottendenti in realtà una serie di presupposti dottrinali tutt'altro che scontati in tale periodo storico. Il papato del resto non desiderava dare definizioni precise, risultando incapace di imporre una linea valida per tutti, rendendo quindi tutte le varie opinioni personali potenzialmente valide e veritiere. La stessa Chiesa cattolica romana stava vivendo una preoccupante crisi d'autorità, divisa tra coloro che vedevano come massima autorità dottrinale un Concilio generale, e coloro invece che l'identificavano nella persona del papa1

Tra il 1513 e il 1515, Martin Lutero tenne lezioni sui Salmi nell'Università di Wittemberg, parlando spesso della dottrina della giustificazione nei termini della via moderna (chiamata anche "nominalismo"): insegnando cioè l'esistenza di un patto presentato unilateralmente da Dio e ratificato con il suo popolo; un patto che consentiva all'uomo di ricevere la grazia nel caso in cui egli "facesse del suo meglio" per respingere il male e sforzarsi di fare il bene. Comportandosi in questo modo dunque, ogni uomo avrebbe posto Dio nella condizione di "essere obbligato" a concedere la propria grazia e la giustificazione. Nel 1515 però, Lutero iniziò un nuovo ciclo di insegnamento basato questa volta sulla Lettera ai Romani. Queste lezioni testimoniano un cambiamento nel suo pensiero a riguardo, che si stava avvicinando al concetto della giustizia come un attributo divino di imparzialità. Senza indulgenza o favoritismi quindi, Dio giudicherebbe ogni essere umano esclusivamente in base al suo merito. Ma cosa accade se il peccatore è così intrappolato dal peccato da non riuscire a raggiungere questi requisiti? Pelagio sosteneva che la natura umana fosse capace di soddisfare queste esigenze senza particolare difficoltà, ma il pensiero di Lutero stava maturando in modo affine a quello di Agostino, riconoscendo come la natura umana fosse talmente corrotta da non poter abbandonare in alcun modo il proprio peccato se non attraverso un intervento divino. La sua esperienza personale portò questi ragionamenti teologici verso una consapevolezza sempre più personale e quotidiana. Lutero riconosceva infatti che, nonostante tutti i suoi sforzi, la ricompensa che Dio poteva dargli non era in nessun caso quella della salvezza ma piuttosto quella della condanna eterna. La promessa risultava valida, ma le condizioni per beneficiarne erano irraggiungibili. Alla fine del 1514, Martin Lutero era angosciato da questo problema per il quale non trovava soluzione2. Nel 1545, scrivendo una prefazione al primo volume dei suoi scritti latini, egli ricorderà così questi anni:
"Nonostante l'irreprensibilità della mia vita di monaco, mi sentivo peccatore davanti a Dio; la mia coscienza era estremamente inquieta, e non avevo alcuna certezza che Dio fosse placato dalle mie opere soddisfatorie. Perciò non amavo quel Dio giusto e vendicatore, anzi, lo odiavo [...]. Ero fuori di me, tanto era sconvolta la mia coscienza, muginavo senza tregua quel passo di Paolo, desiderando ardentemente sapere quello che Paolo aveva voluto dire. Finalmente, Dio ebbe compassione di me. Mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo la connessione di queste parole: "La giustizia di Dio è rivelata nell'Evangelo come è scritto: il giusto vivrà per fede", incominciai a comprendere che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, e per mezzo del quale il giusto vive, se ha fede. Il senso della frase è dunque questo: l'Evangelo ci rivela la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede, come è scritto: il giusto vivrà per fede. Subito mi sentii rinascere, e mi parve si spalancassero per me le porte del paradiso. Da allora la Scrittura intera prese per me un significato nuovo. [...]. Quanto avevo odiato il termine "giustizia di Dio", altrettanto amavo ora, esaltavo quel dolcissimo vocabolo. Così quel passo di Paolo divenne per me la porta del paradiso."3
In modo inaspettato, Martin Lutero riceve un'illuminazione e comprende un significato nuovo del termine "giustizia di Dio". Se prima egli la considerava unicamente come giustizia punitiva, ora la realizza invece come una giustizia donata al peccatore. L'angoscia di dover soddisfare certi requisiti dunque lascia il posto alla gioia e alla gratitudine per aver ricevuto per fede la giustizia necessaria alla salvezza, una giustizia donata da Dio. Ecco dunque il significato del Vangelo come buona notizia: "la condizione necessaria alla giustificazione è stata adempiuta per noi da qualcun altro". Una giustizia ricevuta per fede. Una fede che Lutero rappresenta come un "anello nuziale" che indica l'unione e l'impegno reciproco tra Cristo e il credente.

Da questi presupposti, Martin Lutero sviluppa l'idea della cosiddetta "giustificazione forense". Una volta assodato il fatto che Dio conceda per grazia una giustizia che giustifichi, dove si colloca tale giustizia? Laddove Agostino pensava che fosse situata nel credente, una volta ricevuta da Dio, Lutero invece la colloca per sempre fuori dal peccatore: è una "giustizia altrui" (iustitia aliena), la giustizia di Cristo che viene imputata (non impartita) al credente. Il Padre quindi, guardando ad ogni vero cristiano, al posto dei peccati vedrebbe la giustizia del Figlio imputata ad esso, nonostante questa giustizia non gli appartenga per suo merito. 

Or non per lui soltanto [Abraamo] sta scritto che questo gli fu messo in conto come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà pure messo in conto; per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.
Romani 4:23-25 

Peccato e giustizia coesistono: pur essendo sempre peccatori, agli occhi di Dio in realtà siamo giusti. Questa condizione per Lutero non necessariamente deve essere permanente: la vita cristiana infatti è dinamica e il credente cresce progressivamente nella giustizia, partendo però da uno "stato di giustizia" che lo mette in grado di raggiungerne la realtà. Filippo Melantone, amico e discepolo di Lutero, seguendo questo ragionamento evidenziò la distanza dalle conclusioni di Agostino. Quest'ultimo infatti pensava che il peccatore fosse reso giusto, mentre Melantone distinse due differenti momenti: il momento in cui il peccatore è dichiarato giusto dalla giustizia di Cristo e il momento in cui viene effettivamente reso giusto nel processo chiamato "santificazione". Agostino vedeva in questi aspetti due facce della stessa medaglia, mentre i Riformatori separavano le fasi nel tempo segnando in questo modo un netto distacco con l'insegnamento che la Chiesa aveva dato fino a quel momento. il Concilio di Trento, avrebbe ribadito la teoria di Agostino mentre tutti i Riformatori avrebbero adottato questo pensiero di Melantone consolidando in questo modo una delle differenze tipiche tra protestantesimo e cattolicesimo romano4

La dottrina della giustificazione divenne il centro della teologia di Lutero e del suo programma di riforme. D'altra parte, nella Svizzera orientale c'era però parecchia attenzione da parte di Zwingli per le conseguenze morali dell'evangelo, che comunque non avallavano affatto una dottrina della giustificazione per opere ma piuttosto miravano ad una riforma della comunità intesa tanto come chiesa quanto come società, e in alcun caso soltanto appartenente all'individuo. Dopo il 1520 le idee di Zwingli sulla giustificazione cominciarono ad avvicinarsi a quelle di Lutero, rimanendo comunque anche per gli anni successivi due posizioni differenti per le quali non sarebbero mancati tentativi di mediazione5.  










Con questi nuovi concetti riguardanti la dottrina della giustificazione, rimanevano ancora due problemi da risolvere: da una parte la funzione di Cristo nella giustificazione e dall'altra parte il ruolo dell'obbedienza degli esseri umani alla volontà divina. Con qualche esagerazione occasionale, Lutero aveva dato l'impressione che il peccatore una volta giustificato non avesse più bisogno di compiere opere morali, e sebbene non fosse questo in realtà il suo pensiero, alcuni lo intendettero in questo modo. Martin Bucero a Strasburgo tentò di appianare questa distanza sviluppando la dottrina della doppia giustificazione: quella che chiamava giustificazione dell'empio riguardava il perdono di Dio del peccato umano, e quella che chiamava giustificazione della persona pia, riguardava la risposta umana nell'adesione alle esigenze morali dell'evangelo. La giustificazione dell'empio produceva la giustificazione del pio, manifestando una strettissima relazione tra di loro che non lasciava alcuna possibilità di esistenza dell'una senza l'altra e viceversa. Questo pensiero non convinse tutti i riformatori, lasciando ancora dei dubbi sulla presenza reale e personale di Cristo nei credenti. Nella seconda metà del XVI secolo però, il modello della giustificazione presentato da Giovanni Calvino arrivò a risolvere ogni problema ed affermarsi sempre di più. Calvino descrisse un'unione mistica con Cristo realizzata attraverso la fede del credente, ed avente un duplice effetto: quello di condurre immediatamente alla giustificazione (per mezzo di Cristo il credente è dichiarato giusto davanti a Dio), e quello di produrre una rigenerazione che lo porterà ad essere simile a Cristo stesso. Quest'ultima grazia però non risiede nella giustificazione ma piuttosto proprio nell'unione con Cristo appena descritta6. Questa unione quindi è la sorgente dalla quale scaturiscono tanto la giustificazione quanto la rigenerazione. Nel corso del tempo, le idee di Melantone si cristallizzarono nelle comunità luterane e quelle di Calvino in quelle riformate, portando alla sedimentazione di una gran quantità di vedute differenti della salvezza per grazia mediante la fede; una gloriosa riscoperta della genuina testimonianza della Scrittura: "il giusto per fede vivrà". 




Note:
[1] Cfr. Alister E. McGrath, Il pensiero della Riforma, Ed. Claudiana, pp. 43-47. 
[2] Id, Ibid, pp. 119-123.
[3] Id, Ibid, p. 124.
[4] Id, Ibid, p. 138.
[5] Id, Ibid, p. 140.
[6] Id, Ibid, p. 141-142.
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