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mercoledì 4 febbraio 2015

"Iustitia aliena": la dottrina della giustificazione nella Riforma

Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco; poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, com'è scritto:
«Il giusto per fede vivrà».

|Lettera ai Romani 1:16,17|
Il Medioevo ha visto sorgere diversi pensieri teologici, arrivando ad avere nel XVI secolo almeno nove scuole di pensiero ben identificabili. Le più importanti erano sicuramente quelle ricondotte a Tommaso d'Aquino e Giovanni Duns Scoto, che differivano parecchio nelle loro idee anche su dottrine fondamentali come quella della giustificazione. La nascita dell'umanesimo nel frattempo risvegliava le coscienze individuali, promuovendo domande come: "personalmente, cosa devo fare per essere giustificato?". Proprio questo pluralismo dottrinale contribuiva ad alimentare confusione e frustrazione, rendendo incredibilmente difficile rispondere a domande simili, questioni apparentemente semplici ma sottendenti in realtà una serie di presupposti dottrinali tutt'altro che scontati in tale periodo storico. Il papato del resto non desiderava dare definizioni precise, risultando incapace di imporre una linea valida per tutti, rendendo quindi tutte le varie opinioni personali potenzialmente valide e veritiere. La stessa Chiesa cattolica romana stava vivendo una preoccupante crisi d'autorità, divisa tra coloro che vedevano come massima autorità dottrinale un Concilio generale, e coloro invece che l'identificavano nella persona del papa1

Tra il 1513 e il 1515, Martin Lutero tenne lezioni sui Salmi nell'Università di Wittemberg, parlando spesso della dottrina della giustificazione nei termini della via moderna (chiamata anche "nominalismo"): insegnando cioè l'esistenza di un patto presentato unilateralmente da Dio e ratificato con il suo popolo; un patto che consentiva all'uomo di ricevere la grazia nel caso in cui egli "facesse del suo meglio" per respingere il male e sforzarsi di fare il bene. Comportandosi in questo modo dunque, ogni uomo avrebbe posto Dio nella condizione di "essere obbligato" a concedere la propria grazia e la giustificazione. Nel 1515 però, Lutero iniziò un nuovo ciclo di insegnamento basato questa volta sulla Lettera ai Romani. Queste lezioni testimoniano un cambiamento nel suo pensiero a riguardo, che si stava avvicinando al concetto della giustizia come un attributo divino di imparzialità. Senza indulgenza o favoritismi quindi, Dio giudicherebbe ogni essere umano esclusivamente in base al suo merito. Ma cosa accade se il peccatore è così intrappolato dal peccato da non riuscire a raggiungere questi requisiti? Pelagio sosteneva che la natura umana fosse capace di soddisfare queste esigenze senza particolare difficoltà, ma il pensiero di Lutero stava maturando in modo affine a quello di Agostino, riconoscendo come la natura umana fosse talmente corrotta da non poter abbandonare in alcun modo il proprio peccato se non attraverso un intervento divino. La sua esperienza personale portò questi ragionamenti teologici verso una consapevolezza sempre più personale e quotidiana. Lutero riconosceva infatti che, nonostante tutti i suoi sforzi, la ricompensa che Dio poteva dargli non era in nessun caso quella della salvezza ma piuttosto quella della condanna eterna. La promessa risultava valida, ma le condizioni per beneficiarne erano irraggiungibili. Alla fine del 1514, Martin Lutero era angosciato da questo problema per il quale non trovava soluzione2. Nel 1545, scrivendo una prefazione al primo volume dei suoi scritti latini, egli ricorderà così questi anni:
"Nonostante l'irreprensibilità della mia vita di monaco, mi sentivo peccatore davanti a Dio; la mia coscienza era estremamente inquieta, e non avevo alcuna certezza che Dio fosse placato dalle mie opere soddisfatorie. Perciò non amavo quel Dio giusto e vendicatore, anzi, lo odiavo [...]. Ero fuori di me, tanto era sconvolta la mia coscienza, muginavo senza tregua quel passo di Paolo, desiderando ardentemente sapere quello che Paolo aveva voluto dire. Finalmente, Dio ebbe compassione di me. Mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo la connessione di queste parole: "La giustizia di Dio è rivelata nell'Evangelo come è scritto: il giusto vivrà per fede", incominciai a comprendere che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, e per mezzo del quale il giusto vive, se ha fede. Il senso della frase è dunque questo: l'Evangelo ci rivela la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede, come è scritto: il giusto vivrà per fede. Subito mi sentii rinascere, e mi parve si spalancassero per me le porte del paradiso. Da allora la Scrittura intera prese per me un significato nuovo. [...]. Quanto avevo odiato il termine "giustizia di Dio", altrettanto amavo ora, esaltavo quel dolcissimo vocabolo. Così quel passo di Paolo divenne per me la porta del paradiso."3
In modo inaspettato, Martin Lutero riceve un'illuminazione e comprende un significato nuovo del termine "giustizia di Dio". Se prima egli la considerava unicamente come giustizia punitiva, ora la realizza invece come una giustizia donata al peccatore. L'angoscia di dover soddisfare certi requisiti dunque lascia il posto alla gioia e alla gratitudine per aver ricevuto per fede la giustizia necessaria alla salvezza, una giustizia donata da Dio. Ecco dunque il significato del Vangelo come buona notizia: "la condizione necessaria alla giustificazione è stata adempiuta per noi da qualcun altro". Una giustizia ricevuta per fede. Una fede che Lutero rappresenta come un "anello nuziale" che indica l'unione e l'impegno reciproco tra Cristo e il credente.

Da questi presupposti, Martin Lutero sviluppa l'idea della cosiddetta "giustificazione forense". Una volta assodato il fatto che Dio conceda per grazia una giustizia che giustifichi, dove si colloca tale giustizia? Laddove Agostino pensava che fosse situata nel credente, una volta ricevuta da Dio, Lutero invece la colloca per sempre fuori dal peccatore: è una "giustizia altrui" (iustitia aliena), la giustizia di Cristo che viene imputata (non impartita) al credente. Il Padre quindi, guardando ad ogni vero cristiano, al posto dei peccati vedrebbe la giustizia del Figlio imputata ad esso, nonostante questa giustizia non gli appartenga per suo merito. 

Or non per lui soltanto [Abraamo] sta scritto che questo gli fu messo in conto come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà pure messo in conto; per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.
Romani 4:23-25 

Peccato e giustizia coesistono: pur essendo sempre peccatori, agli occhi di Dio in realtà siamo giusti. Questa condizione per Lutero non necessariamente deve essere permanente: la vita cristiana infatti è dinamica e il credente cresce progressivamente nella giustizia, partendo però da uno "stato di giustizia" che lo mette in grado di raggiungerne la realtà. Filippo Melantone, amico e discepolo di Lutero, seguendo questo ragionamento evidenziò la distanza dalle conclusioni di Agostino. Quest'ultimo infatti pensava che il peccatore fosse reso giusto, mentre Melantone distinse due differenti momenti: il momento in cui il peccatore è dichiarato giusto dalla giustizia di Cristo e il momento in cui viene effettivamente reso giusto nel processo chiamato "santificazione". Agostino vedeva in questi aspetti due facce della stessa medaglia, mentre i Riformatori separavano le fasi nel tempo segnando in questo modo un netto distacco con l'insegnamento che la Chiesa aveva dato fino a quel momento. il Concilio di Trento, avrebbe ribadito la teoria di Agostino mentre tutti i Riformatori avrebbero adottato questo pensiero di Melantone consolidando in questo modo una delle differenze tipiche tra protestantesimo e cattolicesimo romano4

La dottrina della giustificazione divenne il centro della teologia di Lutero e del suo programma di riforme. D'altra parte, nella Svizzera orientale c'era però parecchia attenzione da parte di Zwingli per le conseguenze morali dell'evangelo, che comunque non avallavano affatto una dottrina della giustificazione per opere ma piuttosto miravano ad una riforma della comunità intesa tanto come chiesa quanto come società, e in alcun caso soltanto appartenente all'individuo. Dopo il 1520 le idee di Zwingli sulla giustificazione cominciarono ad avvicinarsi a quelle di Lutero, rimanendo comunque anche per gli anni successivi due posizioni differenti per le quali non sarebbero mancati tentativi di mediazione5.  










Con questi nuovi concetti riguardanti la dottrina della giustificazione, rimanevano ancora due problemi da risolvere: da una parte la funzione di Cristo nella giustificazione e dall'altra parte il ruolo dell'obbedienza degli esseri umani alla volontà divina. Con qualche esagerazione occasionale, Lutero aveva dato l'impressione che il peccatore una volta giustificato non avesse più bisogno di compiere opere morali, e sebbene non fosse questo in realtà il suo pensiero, alcuni lo intendettero in questo modo. Martin Bucero a Strasburgo tentò di appianare questa distanza sviluppando la dottrina della doppia giustificazione: quella che chiamava giustificazione dell'empio riguardava il perdono di Dio del peccato umano, e quella che chiamava giustificazione della persona pia, riguardava la risposta umana nell'adesione alle esigenze morali dell'evangelo. La giustificazione dell'empio produceva la giustificazione del pio, manifestando una strettissima relazione tra di loro che non lasciava alcuna possibilità di esistenza dell'una senza l'altra e viceversa. Questo pensiero non convinse tutti i riformatori, lasciando ancora dei dubbi sulla presenza reale e personale di Cristo nei credenti. Nella seconda metà del XVI secolo però, il modello della giustificazione presentato da Giovanni Calvino arrivò a risolvere ogni problema ed affermarsi sempre di più. Calvino descrisse un'unione mistica con Cristo realizzata attraverso la fede del credente, ed avente un duplice effetto: quello di condurre immediatamente alla giustificazione (per mezzo di Cristo il credente è dichiarato giusto davanti a Dio), e quello di produrre una rigenerazione che lo porterà ad essere simile a Cristo stesso. Quest'ultima grazia però non risiede nella giustificazione ma piuttosto proprio nell'unione con Cristo appena descritta6. Questa unione quindi è la sorgente dalla quale scaturiscono tanto la giustificazione quanto la rigenerazione. Nel corso del tempo, le idee di Melantone si cristallizzarono nelle comunità luterane e quelle di Calvino in quelle riformate, portando alla sedimentazione di una gran quantità di vedute differenti della salvezza per grazia mediante la fede; una gloriosa riscoperta della genuina testimonianza della Scrittura: "il giusto per fede vivrà". 




Note:
[1] Cfr. Alister E. McGrath, Il pensiero della Riforma, Ed. Claudiana, pp. 43-47. 
[2] Id, Ibid, pp. 119-123.
[3] Id, Ibid, p. 124.
[4] Id, Ibid, p. 138.
[5] Id, Ibid, p. 140.
[6] Id, Ibid, p. 141-142.

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