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lunedì 29 settembre 2014

Il regime satanico (parte I): la fondazione di Babilonia

Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. Dirigendosi verso l'Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono. Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!» Essi adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra». Il SIGNORE discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano. Il SIGNORE disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l'uno non capisca la lingua dell'altro!» Così il SIGNORE li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruire la città. Perciò a questa fu dato il nome di Babel, perché là il SIGNORE confuse la lingua di tutta la terra e di là li disperse su tutta la faccia della terra.
Genesi 11:1-9 
1.INTRODUZIONE

Dopo il diluvio universale, il libro biblico della Genesi continua la sua narrazione, presentando la discendenza dei figli di Noè, ed infine la creazione della famosa torre di Babele. Siamo nell'ultimo degli undici capitoli iniziali del libro, che descrivono quella che viene conosciuta come "preistoria biblica". 

Dal punto di vista archeologico, la torre di Babele viene associata all'Etemenanki, la principale ziqqurat della città di Babilonia. Il suo nome in sumerico significa "casa delle fondamenta del cielo e della terra" e secondo la tradizione babilonese venne costruita nel II millennio a.C. dal re Hammurabi. Più volte distrutta e ricostruita, gli ebrei poterono vederla durante la loro deportazione (597 a.C - 538 a.C.), in una forma che mostrava l'incompiutezza del restauro di quel tempo.

Secondo la tradizione ebraica invece, Nimrod fu il fondatore di Babele/Babilonia: con il suo popolo scoprì la stregoneria e desiderò costruire questa torre per assicurarsi la salvezza anche nel caso in cui Dio avesse mandato sulla terra un nuovo diluvio. I commentatori ebraici osservano che è bene per i malvagi essere divisi ed è bene per i giusti essere uniti, per questo il Signore confuse i costruttori della torre. In un periodo successivo, Hammurabi avrebbe  restaurato la torre e la città.
2.CONSIDERAZIONI SUL CONTESTO LETTERARIO

Il racconto della torre di Babele manifesta un'indipendenza letteraria che porta al pensiero di un'esistenza precedente alla redazione della Genesi. Si ritiene infatti che questa tradizione più antica sia stata incastonata nel libro biblico durante le fasi della sua redazione finale, avvenuta secondo la moderna critica biblica intorno al VI - V secolo a.C. Questa tesi è supportata da importanti indizi interni, che mostrano per esempio come questo testo interrompa il filo narrativo del libro, posizionandosi tra il riferimento ai "figli di Sem" (10:31) e al proseguimento logico di questo tema presente immediatamente dopo il racconto di Babele (11:10). Accostando questi due versetti possiamo vedere come doveva essere lo svolgimento originario:

Genesi 10:31 Questi sono i figli di Sem, secondo le loro famiglie, secondo le loro lingue, nei loro paesi, secondo le loro nazioni. Questa è la discendenza di Sem. Sem, all'età di cento anni, generò Arpacsad, due anni dopo il diluvio. Genesi 11:10

Vi sono inoltre ulteriori elementi da considerare a proposito. L'esistenza di Babele infatti era già stata menzionata nel capitolo precedente:

Cus generò Nimrod, che cominciò a essere potente sulla terra. Egli fu un potente cacciatore davanti al SIGNORE; perciò si dice: «Come Nimrod, potente cacciatore davanti al SIGNORE». Il principio del suo regno fu Babel, Erec, Accad e Calne nel paese di Scinear. 
Genesi 10:8-10

Così come era appena stato presentato il motivo della dispersione dei popoli:

Genesi 10:32 Queste sono le famiglie dei figli di Noè, secondo le loro generazioni, nelle loro nazioni; da essi uscirono le nazioni che si sparsero sulla terra dopo il diluvio. 

Ma anche l'esistenza di differenti lingue:

Genesi 10:5 Da costoro derivarono i popoli sparsi nelle isole delle nazioni, nei loro diversi paesi, ciascuno secondo la propria lingua, secondo le loro famiglie, nelle loro nazioni.

Il capitolo dieci di Genesi aveva quindi già ricordato la città di Babele, presentando la dispersione dei popoli e la differenza delle lingue come risultato di una naturale crescita del genere umano, che si era ricostituito grazie alla discendenza di Noè. I riferimenti del capitolo dieci sono intrisi di speranza, individuando un'ideale "unità nella diversità" come risoluzione del dramma appena avvenuto, e come inizio di una nuova epoca. Tutto questo però deve essere sembrato incompleto. E' vero, l'umanità era rinata ed era tornata a popolare la terra, era sorta una nuova dinastia benedetta da Dio, ma anche in questo nuovo mondo era presente la malvagità. Anche in questo nuovo mondo, dove tutti gli esseri umani erano discendenti di colui che "trovò grazia agli occhi del Signore", esistevano persone egoiste e violente, persone che sfruttavano il prossimo per il proprio vantaggio. Il disegno originale di Dio di un'unità nella diversità era stato ancora una volta corrotto, e questo avvenimento doveva essere denunciato in tutta la sua gravità. Per questo motivo da un semplice accenno a Nimrod, il cui principio del regno fu Babele, è sorta la necessità di raccontare meglio la nascita di una nuova dinastia spirituale che, per usare le parole dei libri delle Cronache, fin dall'origine fece ciò che è male agli occhi del Signore. 
3.L'ANALISI DEL BRANO

Dopo queste considerazioni, arriviamo ora al testo che vuole essere vero e proprio protagonista di questo studio. Esso appare facilmente suddivisibile  - secondo il parallelismo antitetico  - in quattro sequenze narrative. All'inizio abbiamo un movimento centripeto che raccoglie tutti gli uomini in un solo luogo, una pianura nel paese di Scinear. Successivamente troviamo la contrapposizione dei due progetti che rappresentano il cuore della narrazione: il progetto degli uomini che con la costruzione desiderano "acquisire fama" e "non essere dispersi sulla faccia della terra", e il progetto di Dio che invece li vuole proprio dispersi su tutta la faccia della terra. La conclusione, in antitesi alla parte iniziale, presenta un movimento centrifugo, in dispersione dalla città di Babele verso tutta la terra.

L'espressione iniziale "parlava la stessa lingua e usava le stesse parole", è resa in senso letterale con "aveva un solo labbro/bocca, e le stesse imprese". "Avere un solo labbro", nei testi mesopotamici antichi significa "pensarla tutti allo stesso modo, avere un unico grande progetto politico in accordo con il potere centrale rappresentato dal re". Mentre invece l'accenno alle "stesse imprese" riconduce ad un'unica opera culturale programmata dal re e dalla sua corte. Fin dall'inizio del testo quindi appare chiaro quale sia l'elemento drammatico che scatenerà gli eventi che seguiranno: la vera disgrazia dell'umanità è infatti l'imposizione da parte di un governo centrale di un unico modo di pensare, di lavorare, di credere; un imperialismo politico, economico, religioso e culturale. 

Questo stato sociale promosso dagli uomini del racconto, causa una veloce progressione della scienza e della tecnica (mattoni cotti al posto di pietre) che consente loro di iniziare a mettere in pratica il progetto che avevano nel cuore, ossia costruire una città con al centro una torre altissima per crearsi una fama che duri per sempre e che in questo modo gli assicuri l'immortalità. Laddove il Signore vuole un'unità nella diversità dei popoli, delle lingue, etnie e tribù; questi uomini si adoperano per una società centralizzata, forte e duratura, che non avesse alcun bisogno di Dio né alcun timore di Lui. 

Il Signore a questo punto decide di "scendere" non tanto per punire, quanto invece per ristabilire il suo disegno originario. Un disegno che attraverso la diversità vuole portare fecondità nell'umanità, valore e dignità ad ogni popolo, e ad ogni singolo essere umano. 

4.CONCLUSIONE

La corretta comprensione del racconto della torre di Babele è fondamentale per poter cogliere il comune denominatore di tutte le azioni e gli imperi che nel panorama biblico sono stati chiaramente individuati come agenti satanici. Da questo punto, infatti, parte un lungo filo rosso che passa per la deportazione babilonese, le profezie di Daniele, l'oppressione ellenica, quella romana, per finire con la Babilonia dell'Apocalisse (cap. 18), nella quale sono stati trovati il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che sono stati uccisi sulla terra.

D'altronde, sempre dalla Genesi parte anche un altro filo che passa per la dispersione dei popoli indotta da Dio e la chiamata di Abramo, che porterà alla benedizione tutte le famiglie della terra. La nascita del popolo di Israele: un'unica nazione composta da dodici tribù differenti. Lo stesso filo collegherà anche il ministero di Cristo attraverso la chiamata dei dodici discepoli, il riscatto delle lingue a Pentecoste e la nascita della Chiesa: un unico popolo formato da gente di ogni lingua, nazione e tribù. L'unità nella diversità verrà sempre preservata e promossa da Dio, finché non diverrà una realtà eterna nei nuovi cieli e nella nuova terra. 

Il racconto della torre di Babele presenta in nuce gli elementi che porteranno ai momenti di maggior tensione nella storia biblica e alla maggiore sofferenza al popolo di Israele e alla Chiesa. Ma anche alla più grande manifestazione della gloria di Dio e ai più importanti traguardi raggiunti all'interno dei suoi piani. Tutto parte da qui, e tutto questo sarà approfondito volta per volta nei prossimi studi, con lo scopo di evidenziare al meglio questi due "fili" nascosti in tutti i libri delle Sacre Scritture.

Bibliografia:

- Cappelletto Gianni, Genesi (capitoli 1-11), Edizioni Messaggero Padova.
- Marchadour Alain, Genesi - commento teologico/pastorale, Ed. San Paolo.

domenica 14 settembre 2014

"Fate miei discepoli tutti i popoli"

Quanto agli undici discepoli, essi andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro designato. E, vedutolo, l'adorarono; alcuni però dubitarono. E Gesù, avvicinatosi, parlò loro, dicendo: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente».
Matteo 28:16-20 

L'importanza di questo brano è decisamente straordinaria per più di un motivo. Tanto dal punto di vista letterario quanto da quello teologico, esso rappresenta il compimento di tutto il vangelo di Matteo: il punto in cui convergono tutti gli intrecci dell'opera. Le implicazioni pratiche poi sono ancora maggiori, trovando in questa sede il principio ultimo della vita cristiana ed il vero significato della stessa. L'obiettivo di fare tra i popoli dei nuovi discepoli di Cristo, insegnando ad osservare tutte le cose che egli ha comandato, racchiude infatti l'intera missione della Chiesa universale di ogni secolo. 

Il desiderio di questo studio è quello di avvicinarsi al cuore spirituale di questo testo, passando prima da quello letterario, per cogliere gran parte della sua ricchezza dopo aver affrontato alcuni brani neotestamentari, necessari per acquisire una consapevolezza più profonda su questo tema di fondamento. 

Il primo passo è quindi quello di approcciarsi alla natura letteraria di Mt 28:16-20. Il suo genere è di difficile individuazione a causa del profondo intervento redazionale dell'autore. Nel panorama biblico tuttavia, il genere letterario più simile è quello della vocazione e della chiamata alla missione, presente in molti testi profetici dell'Antico Testamento. La scena si apre con una cornice narrativa (vv.16-18a) e continua con il messaggio vero e proprio del Signore risorto. Quest'ultimo appare suddiviso in tre ulteriori elementi:

1. Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra.
Formulato all'indicativo, rappresenta il fondamento della missione.

2. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate.
Formulato all'imperativo, rappresenta il comando della missione.  

3. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente.
Formulato all'indicativo, rappresenta la garanzia della missione. 

La cornice narrativa ha luogo in Galilea, dove il Signore aveva chiamato i discepoli (26:32, 28:7 e 10). Qui era iniziato il ministero di Gesù (4:12), e sempre in questo luogo ora essi dovranno riprendere la missione. Questa missione è espressa con un verbo principale all'imperativo (ammaestrate/matheteusate) e due partecipi (battezzando e insegnando). La missione dunque è quella di ammaestrare tutti i popoli attraverso il battesimo e l'insegnamento di tutto quello che Gesù ha a sua volta comandato. Rispetto alla missione del capitolo 10, ora finalmente i discepoli possono dedicarsi anche all'insegnamento/didaskein che non è stato delegato fino a questo momento. Il loro atteggiamento tuttavia risulta ambiguo, comprendendo tanto l'adorazione quanto il dubbio, rappresentando al meglio l'atteggiamento contraddittorio che contraddistingue i discepoli nel vangelo di Matteo e probabilmente i credenti della stessa comunità di origine dell'autore.

La chiesa cristiana del primo secolo iniziò ad evangelizzare e fondare diverse comunità in modo concorde a questo comandamento. Gli Atti degli Apostoli testimoniano tale impegno, presentando l'apostolo Pietro e Giovanni a Gerusalemme e successivamente alla sua conversione, l'apostolo Paolo nei suoi viaggi missionari nell'attuale Turchia e Grecia, giungendo infine, in catene, a Roma. L'insieme delle tredici lettere paoline (secondo la tradizione cristiana) del Nuovo Testamento e del libro degli Atti, rappresenta la voce più autorevole e dettagliata sulla vita della chiesa primitiva e sulle implicazioni pratiche derivate proprio da questa vita di missione. Ovviamente, con uno scopo così ambizioso non sono mancate le difficoltà e i conflitti, tanto sul fronte esterno quanto su quello interno alle prime comunità. Ecco quindi che il candore del comandamento di Gesù "fate miei discepoli" si è potuto calare in tanti contesti diversi, nei quali è stato necessario convincere, rimproverare, esortare con ogni tipo di insegnamento e pazienza (2Tim 4:2). Troviamo un esempio di questo combattimento della fede nella seconda lettera di Paolo ai Corinzi. 

Dopo aver fondato la comunità di Corinto durante il suo secondo viaggio missionario (Atti 18) intorno al 51 d.C., l'apostolo Paolo si imbarcò per la Siria terminando il suddetto viaggio. Successivamente però ne intraprese un terzo, e a Efeso scrisse la sua prima lettera a questa chiesa locale, probabilmente nel 55 d.C., per calmare i dissidi interni ed istruirli a proposito di diverse questioni. Assieme alla lettera inviò il suo collaboratore Timoteo (1 Cor 4:17). Successivamente però, egli ricevette delle inquietanti notizie sulla comunità, riguardanti l'arrivo di falsi apostoli (2 Cor 11:13) che iniziarono a diffamarlo e ad insegnare un vangelo diverso da quello che avevano ricevuto (2 Cor 11:4). Per questo motivo Paolo si diresse da loro una seconda volta (2:1), entrando in conflitto con alcuni di questi esponenti (7:12) senza però riuscire a risolvere la questione. Egli allora tornò a Efeso dove scrisse una nuova lettera affidata a Tito (7:5-16), lettera che riuscì nel suo intento di suscitare una tristezza che potesse portarli al ravvedimento (7:5-16). In questo contesto, probabilmente a Filippi, Paolo scrisse la lettera conosciuta come "Seconda ai Corinzi" per esprimere gioia per il loro pentimento e difesa per il suo apostolato. Queste le sue parole:

Noi non diamo nessun motivo di scandalo affinché il nostro servizio non sia biasimato; ma in ogni cosa raccomandiamo noi stessi come servitori di Dio, con grande costanza nelle afflizioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle percosse, nelle prigionie, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, con conoscenza, con pazienza, con bontà, con lo Spirito Santo, con amore sincero; con un parlare veritiero, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nell'umiliazione, nella buona e nella cattiva fama; considerati come impostori, eppure veritieri; come sconosciuti, eppure ben conosciuti; come moribondi, eppure eccoci viventi; come puniti, eppure non messi a morte; come afflitti, eppure sempre allegri; come poveri, eppure arricchendo molti; come non avendo nulla, eppure possedendo ogni cosa! La nostra bocca vi ha parlato apertamente, Corinzi; il nostro cuore si è allargato. Voi non siete allo stretto in noi, ma è il vostro cuore che si è ristretto. Ora, per renderci il contraccambio (parlo come a figli), allargate il cuore anche voi!
2 Corinzi 6:3-13 

Il ministero dell'apostolo era contraddistinto dal grande rigore, dalla costanza nel suo lavoro in ogni condizione e difficoltà. Da questo brano possiamo capire cosa possa significare fare discepoli del Signore. Significa raccomandare sé stessi come servitori di Dio in ogni afflizione e angustia, sacrificare la propria vita a favore del prossimo, amare incondizionatamente nonostante le persone manifestino facili incomprensioni, evidenti immaturità, mancanza di discernimento. Un vero ministro di Dio infatti è chiamato a servire tanto nella gloria, quanto nell'umiliazione; tanto nella buona, quanto nella cattiva fama. Spesso le persone cambiano idea velocemente, prima osannano e poi screditano, con una velocità disarmante. 
Nel vangelo di Matteo è evidente il fatto che le opere di Gesù sono continuate dai suoi discepoli. Entrambi predicano lo stesso messaggio, lavorano ad una missione itinerante, si separano da quanti respingono il messaggio; entrambe le opere sono state associate alla potenza dei demoni, tanto Gesù quanto i discepoli saranno consegnati ai tribunali, alla morte, alla tortura. Per riassumere con un solo versetto:

Matteo 10:25a Basti al discepolo essere come il suo maestro e al servo essere come il suo signore. 

L'insegnamento del vangelo è che in tutto questo non vi è nulla di anomalo: ogni discepolo di Cristo è chiamato a seguire le sue orme. 

A pensarci bene, nel concetto di "fare discepoli" si cela l'interezza delle attività cristiane. L'evangelizzazione, la fondazione di nuove comunità, la scuola biblica, il discepolato con manuali, il discepolato relazionale, le riunioni giovanili, i sermoni, la formazione alla lode e adorazione..ognuna di queste attività può essere considerata un modo per formare nuovi discepoli, ed ognuna di queste attività non è scevra di problemi di ogni genere. Quanti ministri possono aver sospirato all'esortazione apostolica: "ora, per renderci il contraccambio, allargate il cuore anche voi!"? Sicuramente innumerevoli. 

Ma, grazie a Dio, il servizio cristiano non è solo sofferenza e incomprensione. Sempre nella seconda lettera ai Corinzi leggiamo:

Ma Dio, che consola gli afflitti, ci consolò con l'arrivo di Tito; e non soltanto con il suo arrivo, ma anche con la consolazione da lui ricevuta in mezzo a voi. Egli ci ha raccontato il vostro vivo desiderio di vedermi, il vostro pianto, la vostra premura per me; così mi sono più che mai rallegrato.
2 Corinzi 7:6,7 

Il Signore non manca di sovvenire in aiuto a coloro che ubbidiscono alla sua voce, toccando i cuori e portando al ravvedimento. La vicenda dei Corinzi ne è un chiaro esempio: vediamo infatti alla fine come questa comunità è giunta al ravvedimento, pentendosi di come aveva trattato il proprio apostolo fondatore. Questo pentimento ha più che mai rallegrato il cuore di Paolo, che ora poteva continuare a svolgere la sua opera extra ecclesiale in tutta serenità. 

Come è possibile tuttavia essere come il proprio Signore? Superare ogni difficoltà restando fedele ed irreprensibile? Ci sono due eccezionali elementi a cui è stato accennato in precedenza ma che meritano ora una riflessione ulteriore. 

a. Il fondamento 

La missione cristiana non si basa su una semplice superiorità morale, né sul comandamento di un semplice uomo. La missione cristiana si basa unicamente sul potere di Cristo. Ogni potere gli è stato dato in cielo e sulla terra, e proprio da questo potere si attinge la forza sovrannaturale per adempiere all'opera da realizzare. Il termine tradotto con "potere" rende il sostantivo greco exousia che risponde ad una serie di significati usati nel Nuovo Testamento, tra cui: autorità regale, l'autorità del marito sulla moglie, il potere di governo, la giurisdizione, il potere delle decisioni giudiziarie e quello di gestire gli affari interni. Come disse l'apostolo Paolo agli Ateniesi:

Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo; e non è servito dalle mani dell'uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione.
Atti 17:24-26 

Che piaccia o meno, è stato il Signore a trarre da un uomo solo tutte le nazioni, determinando le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione. Nell'Antico Testamento, i testi profetici sono espliciti nel riconoscere a Dio l'autorità di suscitare o annientare interi imperi, popoli e nazioni. Emblematico a questo riguardo è il brano del sogno di Nabucodonosor e dell'interpretazione del profeta Daniele, nel secondo capitolo del suo libro. 

Le possibilità storiche, sociali e linguistiche della diffusione del vangelo nel primo secolo e nei secoli seguenti furono un'opera sovrana di Dio, espressione dei pieni poteri di governo del Signore Gesù. Poteri che sono in atto anche al momento presente e che continuano a costituire il fondamento di ogni attività cristiana. Questo non costituisce una facilità di adempimento, ma la sicurezza di un sostegno sovrannaturale. Nulla è lasciato al caso, nulla è al di fuori della giurisdizione di Cristo. Ogni credente può cadere in nuove afflizioni, necessità, angustie, percosse, prigionie, tumulti e fatiche, può essere da alcuni considerato come impostore, eppure tuttavia essere veritiero; come sconosciuto, eppure ben conosciuto; come moribondo, eppure vivente; come punito, eppure non messo a morte; come afflitto, eppure sempre allegro; come povero, eppure arricchendo molti; come non avendo nulla, eppure possedendo ogni cosa! Questo è sicuramente un mistero, ma un mistero su cui possiamo fare affidamento. Il teologo Giovanni Calvino riflettendo su questo tema scrisse: 

"In quale condizione saremmo se Satana fosse libero di agire contro di noi?
Se Dio non mantenesse sempre il controllo e desse le briglie a Satana, tutto crollerebbe in totale confusione e noi dovremmo sopportare molto di più di quanto Giobbe ha dovuto sopportare
.” 


Grazie siano rese a Dio nostro Padre per mezzo del figlio suo Cristo Gesù, che possiede ogni potere, in terra come in cielo, e che lo esprime continuamente nel governo di ogni aspetto del creato. 
b. La garanzia

Se ancora per assurdo non bastasse l'autorità ed il potere del fondamento della missione cristiana, essa sarebbe comunque assicurata dalla sua garanzia. Infatti, l'arduo compito che spetta alla Chiesa non è solo sostenuto dal potere di Cristo, ma è anche accompagnato dalla continua presenza del Signore. Egli è presente tutti i giorni, fino alla fine dell'età presente. In ogni tipo di difficoltà, Gesù è presente. In ogni gioia, Gesù è presente. Il terrore comune ad ogni essere umano - quello della solitudine - viene quindi annullato dalla promessa della presenza del Signore tra i suoi. Niente e nessuno può separare dall'amore di Cristo, niente e nessuno può separare dalla sua presenza! Ecco quindi come il comando della missione non si possa in alcun modo ritenere freddo e distaccato, ma piuttosto si debba ritenere come un'obiettivo riscaldato dalla stessa presenza di Gesù Cristo, disposto ad alleggerire il carico passo dopo passo, affiancandosi ad ogni singolo credente.

CONCLUSIONE

Solo questi contributi sovrannaturali avrebbero potuto portare al successo l'opera iniziata dagli apostoli del Nuovo Testamento, arrivando ad oltre due millenni di distanza con un terzo della popolazione mondiale di professione cristiana. Intere generazioni si cristiani si sono succedute scambiandosi "il testimone", portando avanti la missione che Cristo ha dato alla Chiesa in ogni epoca e luogo del globo. In quest'ottica possiamo ora declinare le parole di Gesù anche nella nostra vita. Sappiamo che ogni potere gli è stato dato, sappiamo che è con noi fino alla fine dell'età presente; e su questo fondamento, con questa garanzia, nella presente generazione anche noi possiamo raccogliere il comando per contribuire con la nostra vita a fare suoi discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che Egli ci ha comandato. Forse non esiste attività più difficile, piena di incomprensioni, crisi e delusioni. Ma sopra ogni cosa vi è il governo del Signore, la sua stessa presenza, ed il nostro bruciante desiderio di arrivare alla fine della nostra vita e poter sentirsi dire "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore". 

Bibliografia:

MacArthur John (2006), Prima edizione Italiana, La Sacra Bibbia con note e commenti di John MacArthur, Società biblica di Ginevra.

Monasterio Rafael Aguirre, Carmona Antonio Rodrìguez (1995), Prima edizione Italiana, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Edizione Paideia.

mercoledì 3 settembre 2014

Riflessioni sulla sequela di Cristo

Mentre camminava lungo il mare della Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone detto Pietro, e Andrea suo fratello, i quali gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, lasciate subito le reti, lo seguirono. Passato oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni, suo fratello, i quali nella barca con Zebedeo, loro padre, rassettavano le reti; e li chiamò. Essi, lasciando subito la barca e il padre loro, lo seguirono.
Matteo 4:18-22 

Alcuni potrebbero associare questo episodio evangelico alla conversione, ma in realtà questo non è un significato corretto. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni infatti erano ebrei che già credevano in Dio. Andrea e Pietro vivevano una spiritualità così ricca da vivere un'attiva attesa del messia, come testimonia il vangelo secondo Giovanni (1:40-42). Gesù quindi, vedendoli, non decise di chiamarli per renderli credenti: decise di chiamarli per renderli suoi discepoli. Tanto allora quanto al giorno d'oggi vi è una profonda differenza tra il credere in Dio ed essere discepoli di Cristo. Il popolo di Giuda credeva in Dio. La folla che ascoltava Gesù era sicuramente credente. Ma soltanto pochi erano suoi discepoli. Solo centoventi persone avrebbero atteso lo Spirito Santo a Pentecoste, delle migliaia che poterono vedere i miracoli del Signore ed ascoltare la sua predicazione.
Molti oggi possono dirsi credenti, molti frequentano una chiesa, ma quanti sono discepoli di Cristo?

Pietro ed Andrea stavano gettando la rete in mare: stavano lavorando! Il vangelo di Matteo, in modo identico a quello di Marco, afferma che proprio nel mezzo del loro lavoro furono chiamati da Gesù e, lasciate subito le reti, essi lo seguirono. Non ebbero tempo per pensarci, per avvisare le famiglie. Giacomo e Giovanni addirittura lasciarono la barca con sopra loro padre! Chiesero la sua opinione? Rifletterono sulle implicazioni economiche? Non abbiamo nessuna indicazione in merito, soltanto l'immagine concitata della narrazione evangelica che per entrambi i fratelli ci tiene ad evidenziare una risposta immediata. Se Cristo venisse a trovarci mentre siamo con la nostra famiglia e ci chiedesse di seguirlo seduta stante, cosa faremmo? E' una domanda che ogni sincero credente dovrebbe porsi.

Conservando queste due domande, continuiamo a riflettere sul brano.
Quello che il Signore propone nel contesto è di diventare pescatori di uomini. Questa espressione deriva evidentemente dal lavoro di questi discepoli che, per l'appunto, erano dei pescatori. Uscivano con la barca, gettavano le reti in mare, e dopo un po' di tempo ritiravano le reti, dove trovavano dei pesci impigliati. A questa immagine Gesù affianca quella di pescatori che non pescano più pesci, ma uomini. Se prima stavano sulla barca (sopra il mare), da ora in poi essi sono chiamati a stare sopra l'ambiente dove vivono gli uomini, al di fuori di esso, per pescarli. Sono chiamati ad entrare in un nuovo ambiente, quello spirituale. Sono chiamati a non respirare più aria (pneuma), ma Spirito (pneuma). Sono chiamati a rinunciare a sé stessi, al proprio egoismo e ai propri desideri, per abbracciare la croce e seguire Cristo (Matteo 16:24).

Nel 1937, il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer nella sua opera "Sequela" scrisse tra le altre cose anche le seguenti parole:

Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è grazia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato.

Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commerciante dà tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo.” 

Che tipo di grazia stiamo vivendo? Una grazia a buon prezzo, oppure la grazia a caro prezzo, quella che richiede l'adesione della nostra intera vita? Se nel nostro intimo sappiamo di vivere una grazia a buon prezzo, abbiamo comunque ancora speranza. Più importante della risposta che possiamo dare a questa domanda, infatti, è la consapevolezza e la scelta che da questo momento possiamo maturare. Il Signore è paziente, le sue compassioni si rinnovano ogni mattina. Al prossimo sorgere del sole saremo ancora una volta liberi di ascoltare la sua chiamata. Liberi di lasciare le nostre reti e, questa volta sì, seguire subito il nostro Signore. 





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