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domenica 20 ottobre 2019

Jahvè-Nissi: Il Signore è la mia bandiera



INTRODUZIONE


Nel grande progetto teologico e letterario del Pentateuco troviamo un percorso che fungerà da matrice non soltanto per l'Israele dei primordi, ma anche per quello sofferente al tempo delle deportazioni, lasciando un'eco delle sue tracce fino all'ultimo libro del Nuovo Testamento, ossia l'Apocalisse di Giovanni. 

Possiamo delineare con maggiore precisione questo movimento, rilevandolo dal libro biblico dell'Esodo:
  1. Uscita dall'Egitto (1:1-15:21)
  2. Marcia attraverso il deserto (15:22-18:27)
  3. Avvenimenti del Sinai (19-40)
Il punto di partenza dunque è la sofferenza dei discendenti di Giacobbe nella schiavitù egiziana, che provoca il diretto intervento di Jahvè mediante un uomo che egli sceglie per questo specifico scopo: Mosè. Con potenti e prodigiosi interventi divini, questo popolo riesce quindi a fuggire dall'Egitto per intraprendere il suo pellegrinaggio nel deserto avanzando verso il monte di Dio: luogo in cui potrà finalmente rispondere in modo ufficiale all'appello di Jahvè e stabilire con lui un patto corporativo.
Questo tempo di cammino e di attesa è travagliato, ma porta anche a nuove rivelazioni su Dio e sulla loro relazione. La prima difficoltà incontrata da Israele è quella della scarsità di acqua e cibo. In molti esprimeranno il rimpianto di essere fuggiti dall'Egitto dove, pur essendo schiavi, almeno avevano l'essenziale per vivere. Dio però ha voluto utilizzare questa distretta per rinnovare la rivelazione vissuta dal loro patriarca Abramo a riguardo della provvidenza (Gen. 22:14): egli infatti è il Dio che provvede. Dopo aver mangiato e bevuto, però, il popolo non ha tempo per riposarsi in quanto una nuova sfida lo aspetta, foriera però anche di una più profonda comprensione dello stesso Signore che li ha portati alla libertà.
LA GUERRA CONTRO AMALEC
Allora venne Amalec per combattere contro Israele a Refidim. E Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci a combattere contro Amalec; domani io starò sulla vetta del colle con il bastone di Dio in mano». Giosuè fece come Mosè gli aveva detto e combatté contro Amalec; e Mosè, Aaronne e Cur salirono sulla vetta del colle. E quando Mosè teneva le mani alzate, Israele vinceva; e quando le abbassava, vinceva Amalec. Ma le mani di Mosè si facevano pesanti. Allora essi presero una pietra, gliela posero sotto ed egli si sedette; Aaronne e Cur gli tenevano le mani alzate, uno da una parte e l'altro dall'altra. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. E Giosuè sconfisse Amalec e la sua gente passandoli a fil di spada. Il SIGNORE disse a Mosè: «Scrivi questo fatto in un libro, perché se ne conservi il ricordo, e fa' sapere a Giosuè che io cancellerò interamente sotto il cielo la memoria di Amalec». Allora Mosè costruì un altare che chiamò «il SIGNORE è la mia bandiera»; e disse: «Una mano s'è alzata contro il trono del SIGNORE, perciò il SIGNORE farà guerra ad Amalec di generazione in generazione».
Esodo 17:8-16
Possiamo notare il fatto che la narrazione di questo evento è concitata: Amalec e il suo esercito arrivarono semplicemente a fare guerra al popolo di Israele, senza che ne siano spiegati i motivi e il contesto. Del resto anche dall'altra parte non troviamo dettagli sullo stato d'animo di Mosè o del suo popolo, ma solo il veloce piano d'azione che prevedette la scelta da parte di Giosuè di alcuni uomini abili alla guerra e la scelta di Mosè di salire sulla vetta di un colle con Aaronne e Cur, ma soprattutto con il bastone di Dio. Lo stesso bastone che, per ordine divino, poco tempo prima aveva aperto il Mar Rosso e permesso che il popolo passasse in mezzo al mare camminando sul terreno asciutto, è adesso preso in causa come vero strumento di vittoria. E, infatti, nel breve racconto che abbiamo letto emerge come, sebbene la guerra fosse combattuta da Giosuè e dai suoi uomini, in realtà l'esito derivasse dai gesti di Mosè e da quanto egli tenesse le mani alzate.
Per Dio non c'è differenza tra le difficoltà che Israele mano a mano incontrava. Egli è colui che governa la natura, e lo ha dimostrato tanto aprendo il mare quanto intervenendo per provvedere cibo e acqua per il popolo. Ma egli è anche colui che ha stabilito per le nazioni delle epoche assegnate e dei confini alle loro abitazioni (Atti 17:26). Sia Mosè che Giosuè sono stati risoluti sia nel rispondere alla minaccia incalzante e presentarsi per combattere, sia nella consapevolezza che il risultato di quella battaglia sarebbe stato stabilito non tanto dalla loro effettiva forza o tecnica ma dal fatto che il Signore era con loro. Questa nuova esperienza tuttavia dimostra la fondatezza della loro fede anche al resto del popolo, e persino ai loro discendenti, in quanto è il Signore stesso a chiedere che se ne tenga memoria. In seguito alla vittoria, Mosè costruisce un altare, segno votivo della sua fede, chiamandolo “Il Signore è la mia bandiera”. La bandiera è da sempre simbolo di identità, di coesione, di appartenenza a determinati valori o gruppi sociali e Mosè tramite questa esperienza capisce bene che l'identità del popolo che ha portato su richiesta del Signore verso la libertà non è da ricercarsi in sé stesso ma in quello stesso Signore che ha procurato questa chiamata e liberazione. Lui è la bandiera di Israele e questo è il tratto distintivo di questo popolo rispetto a tutte le altre nazioni sulla terra.
Da questo racconto biblico, come sempre possiamo trarre poi delle considerazioni ermeneutiche valide anche per noi, cristiani del XXI secolo. Anche noi infatti, come l'Israele peregrino, camminiamo dal momento della nostra conversione in un deserto - che rappresenta il nostro mondo - verso il luogo del Monte di Dio, dove poter suggellare la nostra relazione con lui in modo definitivo ed eterno. Anche noi attraversiamo nella nostra vita sfide molto concrete, e possiamo imbatterci in difficoltà di carattere primario: cosa mangiare, e come vestirci. Ma Gesù, nella distretta finanziaria, ci rassicura sul fatto che il Padre provvede ai nostri bisogni (Mt. 6). Anche noi, dopo aver ricevuto la rivelazione per esperienza della provvidenza di Dio, possiamo rimanere sbigottiti da attacchi personali nei nostri confronti, da accuse spesso ingiuste. E in questo caso la nostra fede ci porta a conoscere Dio come colui che è la nostra bandiera. Colui che ci rappresenta e che determina la nostra vittoria. Sì, la nostra vittoria non è determinata dal vigore della nostra forza o dalla nostra difesa, ma dalla sua autorità e dalla sua presenza nella nostra vita. Amalec non ha chiesto permesso per muovere guerra, e in modo simile anche nella nostra vita molte persone ostili non ci chiederanno il permesso per attaccarci. Ma la nostra anima deve restare salda come quella di Mosè e Giosuè, confidando nel Dio che ci ha chiamati a libertà e a salvezza, e che questo stesso Dio ci porterà anche verso la vittoria in queste battaglie e guerre.
Ritengo opportuno concludere questa riflessione leggendo le seguenti importanti parole scritte secoli dopo gli eventi che abbiamo considerato, come promesse e eredità comuni ai cristiani di ogni epoca:
Che diremo dunque riguardo a queste cose? Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è colui che li giustifica. Chi li condannerà? Cristo Gesù è colui che è morto e, ancor più, è risuscitato, è alla destra di Dio e anche intercede per noi. Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Com'è scritto: «Per amor di te siamo messi a morte tutto il giorno; siamo stati considerati come pecore da macello». Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati. Infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura potranno separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore.
Romani 8:31-39

CONCLUSIONE

Il Signore è la mia bandiera” è stato un nome che Mosè ha dato a un nuovo altare dopo l'esperienza di una vittoria militare ottenuta attraverso la fiducia nella presenza e autorità di Dio, simboleggiata dallo stesso bastone che in precedenza aveva aperto il Mar Rosso, permettendo a un intero popolo di camminare verso la salvezza.

Il Signore è la mia bandiera” è il nome che ogni cristiano può comprendere per esperienza crescendo nella propria vita di fede con il Signore e vedendo come egli prende la nostra difesa di fronte agli attacchi ingiustificati che talora riceviamo. Non c'è da avere paura nelle battaglie di ogni giorno, ma la fede che scaturisce dall'esperienza. Dio è con noi, e sebbene questo non ci esenta dalle nostre responsabilità, ci dà la certezza che egli è colui che ci rappresenta, e non le nostre capacità o alleanze. Di conseguenza la nostra vittoria è in lui e non in noi stessi: questo ci deve dare una grande serenità anche nei momenti più difficili.

Nell'epoca del rientro dall'esilio babilonese, al popolo di Giuda venne rivolta questa parola da parte del Signore: “Non per potenza, né per forza, ma per lo Spirito mio", dice il SIGNORE degli eserciti.” (Zac. 4:6). E allo stesso modo, anche per noi deve essere così, ancora oggi, giorno dopo giorno. 

domenica 8 settembre 2019

Se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli



INTRODUZIONE


Il Vangelo secondo Matteo viene riconosciuto come il “Vangelo ecclesiale” perché proprio la chiesa risulta essere uno dei principali argomenti trattati, e in modo unico rispetto agli altri Vangeli Sinottici, ossia Marco e Luca. Basti pensare che la parola “chiesa” ricorre qui 3 volte e negli altri vangeli nessuna. La parola “fratello” ricorre invece addirittura 39 volte contro le sole 20 di Marco e 24 di Luca. Gia questi due piccoli flash statistici sul lessico manifestano indizi importanti proprio in questo senso.

Da un punto di vista dottrinale, invece, questo vangelo possiede altre peculiarità da segnalare, tra le quali la più importante riguarda la suddivisione degli insegnamenti in cinque grandi e famosi discorsi di Gesù. Appare evidente che il redattore, pur essendo in polemica contro la sinagoga, è familiare con l'ebraismo del tempo e per questo motivo utilizza una divisione in cinque unità dal grande impatto simbolico (cinque sono i libri di Mosè, la Torah, e cinque sono i libri dei Salmi, i Tehillim), per consegnare ai discepoli di Cristo un nuovo e definitivo insegnamento che si inserisce in continuità con le precedenti Scritture, pur andando al di là di esse portandole a compimento. Ecco quindi che troviamo il discorso della montagna (5:1-7:29), il discorso di missione (9:35-10:42), il discorso in parabole (c.13), il discorso ecclesiale (18:3-34) e infine il discorso escatologico (23:1-25:46). Il versetto che stiamo considerando oggi si inserisce quindi chiaramente nel discorso ecclesiale, ed è in quest'ottica che dobbiamo considerarlo.

DIVENTARE COME BAMBINI


La prima considerazione che dobbiamo fare a riguardo di questo insegnamento è il fatto che sia rivolto ai discepoli (18:1). È direttamente a loro – e a noi – che Gesù si rivolge: non agli scribi o farisei, non alle moltitudini. Diverse frasi vengono qui raccolte con delle specifiche “parole di aggancio”: ossia “bambino “ (vv. 2.3.4.5.) e “piccoli” (vv. 6.10.14.), che risultano quindi parole chiave per la comprensione del brano e per ogni comunità che accoglie il regno dei cieli. Nel suo complesso, è possibile ravvisare in questo discorso la preoccupazione per le divisioni all'interno delle comunità, il peccato e la condizione dei fratelli deboli. Sempre qui troviamo una procedura per risolvere i conflitti (18:15-20), pur affidandosi tutti alla misericordia del Padre.

Iniziando la lettura del diciottesimo capitolo, troviamo che i discepoli chiedono al Signore chi sia il più grande del regno dei cieli – eufemismo nato per rendere “regno di Dio” senza nominarlo invano – una discussione probabilmente affrontata più volte, come riportano i vangeli (p. es. Lc. 22:24). Al che, Gesù prende un παιδίον – paidion – bambino/fanciullo, lo pone in mezzo ai discepoli e dice:

In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.

La prima cosa che salta all'occhio, e non c'è bisogno di studi particolari per notarlo, è il paradosso di questa affermazione che fa degli elementi sociali più ignorati addirittura un modello per poter entrare nel regno dei cieli. I discepoli discutono su chi sia più grande, e Gesù risponde prendendo il più piccolo tra i presenti. Come fa presente R.T. France, la caratteristica che viene presa in considerazione non è tanto di carattere personale dei bambini (innocenza, umiltà, sensibilità o fiducia) quanto la loro posizione sociale. Restando aderenti al libro in considerazione, è possibile riscontrare che il termine tradotto con “bambini” compare 15 volte nel Vangelo secondo Matteo e principalmente identificando Gesù stesso da piccolo (2:8-9; 2:11,13-14 e 20-21), coloro che erano tra i presenti alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, i protagonisti del 18mo capitolo che stiamo considerando e, infine, i presenti in un'ultima considerazione simile che sarà ripetuta nel diciannovesimo capitolo. Trovo significativo quindi che questo termine ha in sé in questo libro biblico una connotazione marcatamente positiva: non è mai usato con accezione anche solo parzialmente negativa, come ad esempio da Paolo in 1 Corinzi 14:20. I bambini di cui parla Matteo sono coloro che per la loro giovane età vengono disprezzati dalla società. Sono tra gli ultimi. Sono poveri in spirito, semplici, senza alcuna proprietà. Sono proprio come Gesù, un ebreo della periferica Galilea che cresce senza alcun riconoscimento umano ma con una salda fede in Dio. E tale doveva essere anche per questi fanciulli che nel vangelo hanno sempre una cosa in comune: sono presenti alla predicazione di Gesù.

Ecco quindi che abbiamo tratteggiato un sommario – ma forse sufficiente – identikit di questi bambini a cui dobbiamo conformarci in quanto discepoli di Cristo. Persone che stanno davanti alla presenza di Gesù e lo ascoltano. Che non meditano su chi sia il più importante (come stavano facendo i discepoli) ma che vivono la propria fede nell'intimo, con una devozione personale che non è ostentata ma comunque profondamente radicata. Persone che non impongono la loro influenza e il loro potere politico e sociale ma che vivono in mansuetudine, senza sentirsi superiori a nessuno. Questa identificazione trova una sua conferma proprio in un'altra volta che Gesù dovette entrare sul tema e rispondere – questa volta in modo ancor più chiaro – ai discepoli che riflettevano sempre sulla medesima questione:

Fra di loro nacque anche una contesa: chi di essi fosse considerato il più grande. Ma egli disse loro: «I re delle nazioni le signoreggiano, e quelli che le sottomettono al loro dominio sono chiamati benefattori. Ma per voi non dev'essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Perché, chi è più grande, colui che è a tavola oppure colui che serve? Non è forse colui che è a tavola? Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve. Or voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io dispongo che vi sia dato un regno, come il Padre mio ha disposto che fosse dato a me, affinché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno, e sediate su troni per giudicare le dodici tribù d'Israele.
Luca 22:24-30

Ecco la chiave di comprensione che possiamo ricavare dal confronto con questo ulteriore brano: chi governa deve essere come chi serve. Chi è grande tra i discepoli di Cristo deve essere come i più piccoli, ossia come i bambini. Risulta interessante a questo riguardo notare che l'immagine usata da Gesù per farsi capire meglio riguarda la tavola: tra chi è seduto a mangiare e chi serve. In continuità con questo insegnamento è impossibile non accorgersi che il primo (in senso cronologico) ministero istituzionale stabilito nella Chiesa di Gerusalemme è proprio quello del servizio alla mensa, ossia del diaconato (cfr. Atti c.6). Esiste una diaconìa di tutti i credenti (Ef. 4,12) ed è proprio quella del servizio amorevole, ma concreto, verso il prossimo in difficoltà. Chi serve in questo modo, è grande nel regno dei cieli, vive secondo l'esempio di Cristo per grazia di Dio, e un giorno potrà accostarsi alla tavola nel regno del nostro Signore.

CONCLUSIONE


Dai vangeli possiamo vedere che diverse volte i discepoli discutevano tra di loro pensando chi fosse il più grande nel regno di Dio, questa attitudine tuttavia non è solo loro ma ci appartiene: è parte della nostra carnalità. Quante volte abbiamo noi stessi formulato pensieri simili? Anche senza guardare alle statue o alla gerarchia Cattolica romana, ma rimanendo nel nostro contesto evangelico, quante volte abbiamo riflettuto sui pastori e predicatori più in vista pensando a chi sia il più grande? Quante “classifiche” abbiamo fatto o competizioni abbiamo corso nel ministero?

Proprio in questi ragionamenti si inserisce oggi la risposta di Gesù, che ci distoglie dall'attenzione verso tutto questo, alleggerendo di molto nello stesso tempo i pesi inutili che spesso portiamo. La logica del regno di Dio per molti aspetti e contraria a quella della nostra società, e diviene imperativo per noi prendere del tempo ogni volta che ne abbiamo bisogno per conformare meglio la nostra mente alla Parola di Dio e distaccarci dalla mentalità del presente secolo. In questo modo, grazie all'aiuto dello Spirito Santo, potremo avvicinarci sempre di più allo stile di vita di Gesù, che per primo è venuto a noi non per essere servito ma per servire.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Rafael Aguirre Monasterio, Antonio Rodriguez Carmona, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Paideia Editrice, Brescia, 1995.
  • R. T. France, Il Vangelo secondo Matteo, Edizioni GBU, Chieti-Roma, 2004.

venerdì 19 aprile 2019

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Poiché tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte,
né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione.
Salmo 16:10 

 INTRODUZIONE

Senza ombra di dubbio, il fulcro di tutti e quattro i Vangeli sinottici risiede nel racconto finale della passione, morte e risurrezione di Gesù. È infatti attraverso questo evento che il gruppo di discepoli costituito prima di questa Pasqua rilegge tutti gli eventi vissuti in precedenza, comprendendo in modo più profondo ogni intervento e insegnamento di Gesù e costituendo sulla base di tutto questo finalmente una vera e propria comunità attraverso la quale il Signore può continuare a operare mediante il dono dello Spirito Santo. 

Tuttavia nella dinamica evangelica non vi è risurrezione senza morte, né esaltazione senza una precedente umiliazione. Per questo motivo gli evangelisti si impegnano a descrivere le circostanze che hanno portato alla morte Gesù. Non una morte comune, né una morte in eroica battaglia, ma una morte la cui caratteristica principale è quella di essere in perfetto accordo con le parole profetiche delle Scritture e in totale sottomissione alla volontà di Dio Padre. Una morte dunque carica di significati teologici, ossia relativi a una maggiore comprensione di Dio. 

In questa ricorrenza del Venerdì Santo perciò, giorno in cui il mondo cristiano commemora la morte del Signore, vorrei approfondire il racconto della passione di Cristo attraverso la narrazione che troviamo nel più antico Vangelo secondo Marco, evidenziando soprattutto i collegamenti di quest'ultimo con le Scritture dell'Antico Testamento. 

1. NEL LUOGO DETTO GOLGOTA

La prima cosa da fare è leggere in modo esteso il brano in questione. L'ideale sarebbe leggere con interezza i capitoli 14 e 15 del Vangelo, ma per esigenze di analisi ci soffermeremo in questo contesto su una selezione del quindicesimo capitolo. Avendone la possibilità, consiglio comunque di interrompere adesso la lettura dell'articolo per riprenderla dopo aver letto nella loro totalità i due capitoli indicati. In alternativa, di seguito riporto l'estratto più rilevante.
Costrinsero a portare la croce di lui un certo Simone di Cirene, padre di Alessandro e di Rufo, che passava di là, tornando dai campi. E condussero Gesù al luogo detto Golgota che, tradotto, vuol dire «luogo del teschio». Gli diedero da bere del vino mescolato con mirra; ma non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirandole a sorte per sapere quello che ciascuno dovesse prendere. Era l'ora terza quando lo crocifissero. L'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. Con lui crocifissero due ladroni, uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra. [E si adempì la Scrittura che dice: «Egli è stato contato fra i malfattori».] Quelli che passavano lì vicino lo insultavano, scotendo il capo e dicendo: «Eh, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso e scendi giù dalla croce!» Allo stesso modo anche i capi dei sacerdoti con gli scribi, beffandosi, dicevano l'uno all'altro: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso. Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo!» Anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano. Venuta l'ora sesta, si fecero tenebre su tutto il paese, fino all'ora nona. All'ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì lamà sabactàni?» che, tradotto, vuol dire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Chiama Elia!» Uno di loro corse e, dopo aver inzuppato d'aceto una spugna, la pose in cima a una canna e gli diede da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se Elia viene a farlo scendere». Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito. E la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. E il centurione che era lì presente di fronte a Gesù, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Veramente, quest'uomo era Figlio di Dio!» Vi erano pure delle donne che guardavano da lontano. Tra di loro vi erano anche Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo il minore e di Iose, e Salome, che lo seguivano e lo servivano da quando egli era in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Marco 15:21-40 
La cosa che appare evidente sin da una prima lettura, è che questo racconto non comprende molte descrizioni generali del contesto, del luogo o delle persone coinvolte ma, al contrario, è ricco di singoli dettagli riportati proprio perché carichi di un particolare significato teologico. Non abbiamo idea di come sia il luogo detto Golgota, ma sappiamo che il suo nome significa "luogo del teschio", e questo è importante perché è qui che sta per avvenire la morte del Signore, lasciando intendere come questo luogo fosse predestinato a tal scopo da Dio. Non sappiamo a questo punto quante persone fossero presenti, cosa dicevano, come erano vestite, quanto tempo richiese la crocifissione, ma sappiamo il dettaglio che appena questa fu compiuta i soldati romani si divisero le vesti di Gesù tirando a sorte. Perché? Perché questo dettaglio era presente nelle Scritture, e questa testimonianza non fa altro che avvalorare che tutto quello che sta accadendo è nella piena volontà di Dio, una volontà così perfetta e immutabile da essere stata descritta secoli prima in un Salmo composto dal più grande monarca di Israele: il Salmo 22. Questo adempimento è il primo ma non l'ultimo, infatti tutto il resto della descrizione si incrocia più volte con questo Salmo particolare che merita una lettura dedicata per poter infine tornare al nostro brano originario con una maggiore capacità di comprensione. Al di là delle singole citazioni e allusioni infatti, tutto il Salmo 22 e il suo significato teologico all'epoca del Vangelo di Marco sono fondamentali per rilevare come sia stato ri-compreso negli eventi della Passione, costituendone non solamente una realtà tangente ma una vera e propria matrice teologica lungo l'intera narrazione. Leggiamo dunque con attenzione il Salmo 22, parte del primo dei cinque libri dei Salmi e per questo attribuito al prode re Davide.

2. DIO MIO, PERCHÈ MI HAI ABBANDONATO?
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito!
Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi,
e anche di notte, senza interruzione.
Eppure tu sei il Santo,
siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
confidarono e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furon salvati;
confidarono in te, e non furono delusi.
Ma io sono un verme e non un uomo,
l'infamia degli uomini, e il disprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo,
dicendo:
«Egli si affida al SIGNORE;
lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!»
Sì, tu m'hai tratto dal grembo materno;
m'hai fatto riposare fiducioso sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal grembo di mia madre.
Non allontanarti da me, perché l'angoscia è vicina,
e non c'è alcuno che m'aiuti.
Grossi tori mi hanno circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
aprono la loro gola contro di me,
come un leone rapace e ruggente.
Io sono come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa sono slogate;
il mio cuore è come la cera,
si scioglie in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi si attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani mi hanno circondato;
una folla di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e mi osservano:
spartiscono fra loro le mie vesti
e tirano a sorte la mia tunica.
Ma tu, SIGNORE, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, affrèttati a soccorrermi.
Libera la mia vita dalla spada,
e salva l'unica vita mia dall'assalto del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete il SIGNORE,
lodatelo!
Voi tutti, discendenti di Giacobbe,
glorificatelo,
temetelo voi tutti, stirpe d'Israele!
Poiché non ha disprezzato né sdegnato l'afflizione del sofferente,
non gli ha nascosto il suo volto;
ma quando quello ha gridato a lui, egli l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quelli che cercano il SIGNORE lo loderanno;
il loro cuore vivrà in eterno.
Tutte le estremità della terra si ricorderanno del SIGNORE e si convertiranno a lui;
tutte le famiglie delle nazioni adoreranno in tua presenza.
Poiché al SIGNORE appartiene il regno,
egli domina sulle nazioni.
Tutti i potenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non possono mantenersi in vita
s'inchineranno davanti a lui.
La discendenza lo servirà;
si parlerà del Signore alla generazione futura.
Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno com'egli ha agito.
Salmo 22 Al direttore del coro. Su «Cerva dell'aurora». Salmo di Davide.
Questa composizione vive di una forte tensione e contrapposizione tra la sensazione opprimente dell'abbandono di Dio (vv. 1-3) e la visione della sua santità e intronizzazione in Sion (v. 4). A mediare tra questi due opposti, troviamo i ricordi degli interventi salvifici del passato (vv. 5-6). Lungo queste coordinate dunque si dipanano i versi. Davide è ridotto a oggetto di scherno e ridicolizzato dai suoi nemici, senza possibilità di fuga. La sua sofferenza disumana lo porta a pensare di essere stato completamente abbandonato da Dio, e gli avversari se ne approfittano dividendosi le vesti come se fosse già morto. In tutta questa situazione però, egli non smette di invocare il Signore, e infatti la sua speranza viene radicata nel suo intervento.

Nel giudaismo del I secolo questo Salmo rivestiva un ruolo importante per la comunità di Qumran, che lo comprendeva come la descrizione della propria rivalsa escatologica su Belial e i suoi agenti: una Sion vittoriosa i cui nemici sono soffocati e la cui lode è udita in tutto il mondo, una terra nuovamente generosa in cui "gli umili saranno saziati", la tribù di Giuda gioiosa ed esultante per la distruzione dei suoi nemici, e tutto ciò per la gloria di Jahvè1. L'attenzione posta su questo Salmo dunque ancor più che sulla descrizione del servo sofferente veniva posta sulla successiva reintegrazione escatologica della comunità alla gloria di Dio. I nemici, da re gentili ostili a Davide vengono nel corso del tempo sempre più spesso compresi come forze spirituali della malvagità, spesso legate ai popoli oppressori di Giuda, ma che alla fine non potranno fare a meno di sottomettersi e adorare Dio in questa definitiva vittoria finale. 

3. DALLA MORTE DEL SERVO DI DIO AL POPOLO CHE NASCERA'

Questi elementi di vittoria e speranza escatologica possono forse essere estranei al racconto di Marco? Sicuramente il suo intreccio si realizza in questo contesto quasi esclusivamente con la prima parte del Salmo, relativa alla sofferenza di Davide in quanto servo di Dio e - per estensione teologica e ricomprensione cristocentrica - a quella di Cristo, descritta minuziosamente. Sulla croce Cristo grida in modo esplicito proprio il primo verso di questo Salmo, evidenziando il senso di abbandono in un momento di sofferenza assoluta e straziante. Il disprezzo del popolo inoltre appartiene senz'altro a una condanna a morte per mezzo dell'infamante croce, così come il cuore che come cera di scioglie nelle viscere può esprimere in modo calzante l'atroce esperienza di questa tortura. La foratura delle mani e dei piedi divene espressione quasi esclusiva della croce e la spartizione delle vesti e della tunica da parte dei nemici conclude una serie di ricorrenze che, anche solo statisticamente, non può che combaciare in modo esatto e perfetto con lo specifico evento della crocifissione del Signore.

Ma i significati non possono fermarsi qui, a maggior ragione conoscendo gli avvenimenti raccontati successivamente. Ecco quindi che, in modo implicito, l'aspettativa giudaica tutta focalizzata nella seconda metà del Salmo non può evitare di essere inclusa e coinvolta proprio in questo momento di estremo dolore, come punto di partenza per una rinascita - anzi - per una risurrezione. La risurrezione che arriverà a Pasqua ma anche e soprattutto l'effetto che questa avrà per il popolo che nascerà e che dirà com'egli ha agito. Ecco, se è per la gioia che aveva dinanzi che Gesù sopportò la croce (Eb. 12:2), per lo stesso motivo l'evangelista si impegna a descrivere la crocifissione, consapevole che è verso questo momento che è necessario guardare per trovare la vera origine della sua comunità. Se la prima parte del Salmo 22 profetizza la morte in croce del Signore, infatti, gli ultimi versi profetizzano invece le relative conseguenze: la nascita di una comunità formata dalla discendenza del servo sofferente: la primitiva comunità cristiana.
La discendenza lo servirà;
si parlerà del Signore alla generazione futura.
Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno com'egli ha agito.
Questo è "l'identikit" della comunità di Marco, e non solo della sua: di ogni comunità cristiana che legge questo Vangelo con piena fede nel fatto che Gesù è il Signore. A loro - e a noi - l'incarico di dire come egli (Gesù) ha agito, come e perché egli è morto, ossia in che modo questo eventi hanno portato alla loro (nostra!) nascita come popolo. Questa è l'origine dell'evangelizzazione, il momento del concepimento della Chiesa. Il luogo di morte per eccellenza dunque (il Teschio), anche mentre viene descritto con questo scopo trascende nella volontà di Dio assumendo il significato di luogo di origine per nuova vita, e questo non solo per l'imminente risurrezione del Signore ma anche per l'imminente nascita della Chiesa. Ecco quindi come la passione di Cristo che abbiamo appena letto, il momento in cui ogni speranza sembra dissolversi, può diventare in modo paradossale il fulcro per la certezza di un nuovo trionfo. Un trionfo che inizierà a rendersi manifesto soltanto dopo tre giorni.

CONCLUSIONE      

In questo approfondimento abbiamo potuto prendere in considerazione la parte centrale del racconto di Marco relativo alla crocifissione del Signore. Abbiamo visto come questo racconto compenetra il Salmo 22, che rappresenta nella sua prima parte una perfetta previsione profetica degli eventi che l'evangelista sta descrivendo. Questo Salmo, tuttavia, continua con la descrizione nell'intervento e nell'intronizzazione in Sion di Jahvè e nella reintegrazione del suo popolo in sua presenza. Tale parte era quella maggiormente elaborata dalla riflessione teologica giudaica nel I secolo ed è decisamente improbabile che l'evangelista - anche se non la cita direttamente - non la tenga in considerazione come parimenti calzante con la situazione che sta riportando. I versi finali di questo Salmo infatti dipingono con straordinaria lucidità l'immagine della nascente comunità cristiana, una comunità nata grazie al sacrificio del servo di Dio e la cui missione è quella di dire come ha agito, ossia predicare a sé stessa e al mondo il suo Vangelo.


Note:

[1] Cfr. G.K. Beale, D. A. Carson, L'Antico Testamento nel Nuovo - vol. 1, Paideia Editrice, Torino, 2017, p. 426.   

domenica 24 marzo 2019

La parola di Cristo















INTRODUZIONE

Se consideriamo la totalità del messaggio biblico, approfondendone la teologia, una delle prime cose che noteremo è la continua comunicazione e interazione tra Dio e l'uomo. Dio crea (e lo fa parlando!), ordina, dà uno scopo a ogni aspetto del creato, parla intimamente con l'uomo e, nonostante la sua disobbedienza, non cessa mai di avere un'influenza su coloro che lo cercano personalmente e di intervenire nella storia per promuovere attivamente la sua volontà. Certo, ci sono momenti di silenzio e apparente assenza, ma anche in queste situazioni c'è sempre qualche protagonista biblico che vive in una feconda relazione con il proprio creatore e che, nel momento della necessità, interviene in favore della sua famiglia, tribù, popolo, nazione. Un comune denominatore teologico di queste migliaia di anni, decine di autori e svariate storie bibliche dunque, non può che essere la comunicazione di Dio. Dio ha comunicato con la creazione (il fatto che quel che è attorno a noi esiste, è già di per sé comunicazione!), ha comunicato con la Torah (stabilendo un patto e delle indicazioni di vita per il suo popolo Israele), ha comunicato attraverso i profeti veterotestamentari (quando l'interpretazione della Torah diventava vuota, slegata da un coinvolgimento personale e sociale attivo) ha comunicato in modo definitivo con la vita, la morte e risurrezione di suo Figlio Gesù (riportando la comunicazione a tutti i popoli e tutte le nazioni) e ha comunicato attraverso la Bibbia: una raccolta di testi ispirati dallo Spirito Santo e raccolti nell'Antico Patto, precedente a Cristo, e nel Nuovo Patto. La malattia e la sofferenza maggiore per l'uomo è, ed è sempre stata, la solitudine. Sapendolo molto bene, il nostro creatore si è quindi premurato da sempre di dire a noi, sue creature: non siete soli!

In questa cornice complessiva, oggi considereremo un'importante frase che l'Apostolo Paolo scrisse ai credenti di Roma in un momento particolare della sua vita e del suo ministero. Dobbiamo considerare infatti che la Lettera ai Romani costituisce l'opera massima dell'apostolo Paolo: una lettera scritta ad una comunità non fondata da lui, alla fine di una fase cruciale della sua opera missionaria (probabilmente nell'inverno tra il 57 e il 58), con il chiaro intento di esporre e difendere la propria matura comprensione dell'evangelo così come lo aveva proclamato fino a quel momento e come sperava di poterlo presentare fino alle estremità della terra, in Spagna. Questa lettera è la meno condizionata dal fluire del discorso e del colloquio di Paolo con le sue chiese, e per questo è considerata la più adatta per una comprensione completa del suo insegnamento slegato da incombenze e problemi comunitari specifici. Da questa lettera trarremo l'insegnamento da comprendere quest'oggi, per realizzare quanto Dio non solo comunichi ma quanto voglia comunicare con ciascuno di noi.

IL CUORE DEL MESSAGGIO

Dopo l'introduzione, la Lettera ai Romani procede affrontando una serie di argomenti che possiamo considerare come la sistematizzazione del messaggio evangelico e apostolico. Troviamo un primo discorso dottrinale sulla giustificazione (1:18-4:25), un secondo discorso sulla vita cristiana (5:1-8:39) e un terzo discorso sul rapporto tra i giudei e il vangelo (9:1-11:36). Sappiamo infatti che vi era una certa tensione tra coloro che avevano riconosciuto Gesù come Messia e coloro invece che, pur appartenendo al popolo ebraico, non lo avevano fatto. Nello specifico, l'editto di Claudio che espulse i giudei da Roma divise le chiese della capitale, vedendo esiliati i credenti di origine ebraica. Quando l'ordinanza cessò e i giudeocristiani tornarono le loro cariche erano state ricoperte da nuovi fratelli di origine gentile: come accoglierli e come trovare un nuovo equilibrio sociale ed ecclesiale in queste comunità? Paolo scrive anche per questo, ma lo fa considerando la tensione nel suo insieme, in modo globale e approfondito al tempo stesso.

Da questo spunto Paolo esprime il suo desiderio per tutti i connazionali, ossia che riconoscano il Cristo, e la sua preoccupazione per ogni situazione in cui questo non avviene. Egli riconosce che i giudei hanno zelo per Dio, ma senza conoscenza della necessità di una giustizia che non può essere la propria: ogni giustizia umana infatti è imperfetta e inadatta davanti a Dio. Per questo motivo Cristo è morto e risorto, per adempiere la giustizia divina e poter essere invocato per fede da tutti: tanto dai giudei quanto dai greci (tutti coloro che non sono di origine ebraica). Dopo questa considerazione, l'Apostolo sottolinea la necessità di predicare il messaggio di Dio in Cristo ma conferma anche che questo compito si stava adempiendo regolarmente. E in questa situazione, proprio come profetizzato da Isaia (cfr. 53:1), non tutti avevano ascoltato attivamente e ubbidito alla buona notizia.


Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.” 
Romani 10:17


Ecco quindi che la parola, la comunicazione di Dio, era stata data – così come è data anche al giorno d'oggi – e aveva raggiunto nel corso del tempo persone di ogni estrazione. Ma alcuni avevano udito senza ascoltare, avevano rinnegato la potenza del messaggio, erano stati incapaci di riconoscere la pienezza del suo contenuto.


Da tutto questo possiamo comprendere molto della dinamica comunicativa tra Dio e l'uomo (ciascuno di noi!) e scoprire come Dio sta parlando a noi, ma se non lo stiamo sentendo....è perché ascoltiamo altrove, con altre priorità e con scarsa concentrazione. Al fulcro di tutto questo, poi, troviamo la fede: l'asse attorno al quale ruota la nostra relazione personale con Dio.


Per prima cosa dobbiamo considerare la direzione dell'ascolto. I giudei sapevano quello che Gesù aveva detto e fatto e quello che gli apostoli proclamavano, ma molti non lo (ri)conoscevano. Avevano udito, ma senza ascoltare. C'è una grande differenza tra questi due verbi. Tutti noi siamo bombardati ogni giorno da migliaia di informazioni e migliaia di scelte – piccole e grandi – che dobbiamo fare. Naturalmente non possiamo prestare la giusta attenzione a ogni situazione, e in automatico il nostro cervello fa una selezione di quelle che inconsciamente ritiene essere degne della nostra attenzione consapevole. A volte però qualcosa ci sfugge, e lo trattiamo con superficialità. Ecco: la comunicazione di Dio è degna di tutta la nostra attenzione. Non dobbiamo solo udire: dobbiamo ascoltare. Ascoltare cosa? Ascoltare il Vangelo e la sua predicazione: il motivo per cui ci sentiamo soli e separati da Dio e il modo che egli ha trovato per ristabilire invece una nuova relazione, comunione e comunicazione nella croce di Cristo. Dobbiamo scegliere di ascoltare il messaggio di Dio e per farlo dobbiamo distogliere la nostra attenzione da altri messaggi.


In secondo luogo è necessario comprendere la potenza della comunicazione di Dio (il Vangelo). Quel che riceviamo dalla parola di Dio infatti non è solo un messaggio di servizio, ma è il mezzo attraverso cui la sua potenza viene liberata. Attraverso la parola di Dio sono stati creati i mondi (cfr. Gn 1; Eb 11) e attraverso la stessa parola possiamo ricevere la sua potenza per la nostra salvezza. Per fede. La stessa potenza che ha creato ogni cosa attorno a noi è disponibile per risanare le nostre ferite, colmare le nostre debolezze e superare le nostre limitatezze. Ascoltarlo, comprenderlo e viverlo è però nostra responsabilità. Se non si prova a mettere in pratica una determinata azione non si può mai sapere quale può essere il suo risultato. Ecco, guardando attorno a noi possiamo vedere la potenza di Dio nella salvezza e pienezza di vita presente nella sua Chiesa, e unirci nel vivere questo stesso messaggio credendo ad esso con la nostra mente, con la nostra confessione e con la nostra adesione quotidiana.


Naturalmente, come accennato in precedenza, questi aspetti coinvolgono una concentrazione e un ascolto attivo. Questo non deve sembrare qualcosa di troppo difficile: non stiamo parlando di una lezione universitaria! Riguarda invece soprattutto un'attitudine del nostro cuore. Noi siamo naturalmente inclini a essere concentrati nei riguardi di ciò che riteniamo importante o di ciò che ci piace molto. Ecco, questa è la chiave di tutto. Basta considerare inizialmente quello che sono le parole di Gesù e il senso del suo sacrificio per esserne affascinati. Come si può non esserlo?! Lasciamoci affascinare da Gesù e, senza che neanche ce ne rendiamo conto, la nostra attenzione aumenterà nei suoi confronti (distogliendosi dalle altre voci), comprenderà il peso delle sue parole (crescendo la fede dentro di noi) e ci porterà con una naturalezza sovrannaturale a seguire le sue orme. Per la sua gloria.

CONCLUSIONE

La tesi di fondo della Lettera ai Romani è presentata sin dal suo inizio (1:16) e riguarda il fatto che il giusto per la sua fede vivrà. Ma questa fede ha un'origine e la sua origine è l'ascolto della parola di Cristo. Questo ascolto nasce a volte in modo inconsapevole, ma il fascino delle parole del Signore genera interesse, attenzione e potenza. Sì, possiamo rigettare tutto questo come fecero i giudei del I secolo che si distanziarono da Cristo, ma la volontà di Dio è invece che troviamo in lui una comunione che ci allontani dalla nostra solitudine. Una vita che ci allontani dalla nostra morte. Un messaggio che ci allontani dalla cacofonia che ci circonda e che in ultima analisi non è altro che un assordante silenzio. L'esortazione che Dio ci rivolge oggi, dunque, è di tornare a Cristo. Tornare al suo ascolto. Tornare alla sua vita. Tornare alla potenza della sua parola.

domenica 10 febbraio 2019

Insieme per (ri)costruire






















Nota:  questi sono gli appunti del messaggio predicato al centro REHOBOTH Saronno il 10/02/2019

Raccontai loro come la benefica mano del mio Dio era stata su di me, e riferii le parole che il re mi aveva dette. Quelli dissero: "Sbrighiamoci e mettiamoci a costruire!" E si fecero coraggio con questo buon proposito.
Nehemia 2:18

INTRODUZIONE 

I libri di Esdra e Nehemia testimoniano di un miracolo. Un risveglio, una rinascita, anzi: una vera e propria risurrezione dai morti. Non di una singola persona ma, in modo ancora più incredibile, di un intero popolo e di una intera nazione. Ricordiamo la visione del profeta dell’esilio Ezechiele nella valle delle ossa secche (Ez. c. 37): il profeta viene trasportato in una valle piena di ossa secche e, alla parola del Signore che infonde lo Spirito, queste ossa si ricongiungono con muscoli, carne e pelle. La spiegazione di questa immagine è la seguente:

Egli mi disse: «Figlio d'uomo, queste ossa sono tutta la casa d'Israele. Ecco, essi dicono: "Le nostre ossa sono secche, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti!" Perciò, profetizza e di' loro: Così parla il Signore, DIO: "Ecco, io aprirò le vostre tombe, vi tirerò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi ricondurrò nel paese d'Israele. Voi conoscerete che io sono il SIGNORE, quando aprirò le vostre tombe e vi tirerò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio! E metterò in voi il mio Spirito, e voi tornerete in vita; vi porrò sul vostro suolo, e conoscerete che io, il SIGNORE, ho parlato e ho messo la cosa in atto", dice il SIGNORE»
Ezechiele 37:11-14

I sacerdoti, i nobili, gli artigiani di Giuda erano deportati a Babilonia, la nazione settentrionale di Israele era stata deportata in Assiria più di un secolo prima, il tempio di Gerusalemme - luogo della presenza di Dio sulla terra - era stato distrutto. Le promesse di benedizione e prosperità per il popolo sembravano definitivamente sepolte in terra straniera e all’orizzonte non appariva più alcun futuro per il popolo nella sua identità e integrità. Ma da questa desolazione, da questa tragedia, l’oracolo profetico promuove una parola di speranza. La speranza di una vera e propria risurrezione nazionale. Qual è la prima cosa che il Signore chiede di fare? Crederci. E dalla tomba arriverà a sorgere una nuova vita. 

Ecco, il versetto che stiamo per considerare (Ne. 2:18) si inserisce nel tempo di realizzazione di questa promessa, nel tempo di realizzazione di questo miracolo. 

UNITI DAL PROPOSITO DI DIO

Zorobabele e Giosuè avevano già guidato il primo rimpatrio e ricostruito il tempio a Gerusalemme. Era stato un vero e proprio pellegrinaggio religioso, con l’obiettivo di ricostruire il luogo più santo del giudaismo (Ed. 1-6). Successivamente Esdra aveva capeggiato un secondo rimpatrio (458 a.C., Ed. 7-10). Una parte del popolo di Giuda era dunque già tornato nella sua terra, il tempio si stava ricostruendo, ma naturalmente mancava ancora molto per poter dire di essere al sicuro. In questo tempo infatti in Persia Nehemia apprende che "i superstiti della deportazione sono là, nella provincia, in gran miseria e nell'umiliazione; le mura di Gerusalemme restano in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco"Egli dunque si sente profondamente coinvolto da questa situazione, prega il Signore e con convinzione sottopone il problema al re Artaserse che lo lascia andare per offrire il proprio contributo. Nehemia fa un sopralluogo per vedere di persona l’entità della devastazione delle mura e delle porte delle città e poi, nel versetto che stiamo considerando, si rivela al popolo, ai sacerdoti e ai Giudei raccontando l’approvazione che aveva ricevuto da Artaserse e il piano di ricostruzione che Dio gli aveva messo in cuore. 

Questo libro biblico e questa vicenda resta di grande edificazione spirituale anche oggi, a migliaia di anni di distanza. Esattamente come nella parabola di Gesù sui lavoratori nella vigna (Mt. 20), Nehemia non è il primo uomo a iniziare un lavoro, ma si inserisce nel lavoro iniziato da altri (partendo appunto dal tempio, ossia dal cuore della fede giudaica) per promuovere l’indispensabile opera di costruzione delle mura a protezione della città, e contribuire in modo determinante. Ecco quindi che un racconto storico-teologico può trascendere il suo contesto più immediato per avere un impatto anche su noi oggi, credenti del XXI secolo, in una forma di attualizzazione ermeneutica. Riflettendoci infatti possiamo rilevare molti punti in comune con la nostra fede quotidiana e molti princìpi spirituali che possono essere di utilità anche per noi oggi. Vediamone alcuni. 

Il primo può riguardare l’esigenza di ripristinare il luogo di adorazione nella nostra vita e, in seguito a questo, proteggere la fiamma della fede che il Signore ci ha affidato. Il tempio infatti può rappresentare la nostra devozione personale per Dio, che in Cristo deve avere il primo posto nella nostra vita. Ma questo non basta: bisogna anche difendere e coltivare questa intimità con nuove abitudini quotidiane, e questa esigenza può venir paragonata all’urgenza di costruzione delle mura. Così come le mura non sono costruite da un solo uomo, tuttavia, allo stesso modo anche la nostra fede non può essere conservata e coltivata esclusivamente in solitudine davanti al Signore, ma è promossa e rafforzata nella frequentazione della nostra comunità: il luogo dove Dio si usa di altri fratelli e sorelle per farci crescere nel carattere, nella formazione e nella maturità. Proseguendo nella lettura del successivo capitolo di Nehemia infatti vediamo come tutto il popolo risponde volenteroso all’appello dell’uomo di Dio e ciascuno prende il proprio posto di lavoro per la ricostruzione complessiva delle mura. Il lavoro di tutti per l’edificazione comune. Proprio come accade nel corpo di Cristo, dove ogni membro è chiamato a intervenire in base al vigore della propria forza per trarre il proprio sviluppo complessivo (Ef. 4:16). Non importa dunque quale incarico possiamo avere in chiesa: tutti siamo tempio dello Spirito Santo, e tutti siamo chiamati a sostenere, incoraggiare, formare e difendere la nostra maturità spirituale individuale e comunitaria. Tutti noi abbiamo questa missione da compiere, ma sempre in modo personale e unico, secondo la nostra chiamata più specifica e il contributo particolare che il Signore ci chiede di dare.

Oltre alla missione di ciascuno, questo esempio biblico può istruirci sulla corretta attitudine da mantenere nel corso della nostra vita di fede. La costruzione delle mura non è avvenuta in un sol giorno, e in modo simile anche le nostre opere di fede non si limitano al giorno in cui abbiamo accettato la salvezza del Signore. No, la vita cristiana più che a una corsa ai cento metri assimiglia a una maratona a staffetta, e quello che il Signore ci richiede è costanza e integrità nel nostro servizio. Tutto questo per il nostro carattere, per la nostra crescita e per la nostra maturità. Più ancora delle mura ricostruite, questa opera ha prodotto una grande unità in un popolo scoraggiato e demotivato. E, in forma simile, più di qualsiasi opera che possiamo fare nella nostra vita, la fede che conserviamo viene raffinata nelle difficoltà ed è per Dio più preziosa dell’oro fino (1 Pt. 1:7). Il nostro amore, il nostro carattere e la fede che tempriamo nel fuoco sono le uniche cose che potremo portare nell’eternità, ed è in queste cose che il Signore ci chiede di investire. 

Un terzo esempio che possiamo trarre, infine, riguarda l’esempio. Nehemia non si è lasciato scoraggiare dal suo lavoro, dal mettere a repentaglio la propria vita, dalla demotivazione del popolo, dalla lentezza dei lavori o dall’enormità dei cantieri. Al contrario, è sempre stato focalizzato sull’obiettivo che sentiva in cuore da parte di Dio e sulla sua determinazione a realizzarlo, a qualsiasi costo. Questo ha fatto di lui un esempio positivo, che ha portato il popolo a reagire secondo il proposito stesso di Dio. La Scrittura ci esorta a fare lo stesso: non lasciarci scoraggiare dalle circostanze o dai nostri limiti ma agire in modo fermo nella fede per continuare a “combattere il buon combattimento”. Questo sarà utile per noi, ma aiuterà anche le persone che il Signore ci metterà vicino e potremo essere per loro degli esempi positivi. Dobbiamo considerare che, in ultima analisi, tutti noi siamo sempre e comunque degli esempi: influenziamo tutti le persone che abbiamo intorno, in un modo o nell’altro. Ma sta a noi decidere che esempi essere: esempi di scoraggiamento e dubbio o esempi di incoraggiamento e fede. Dimoriamo nella chiamata e nel proposito che Dio ha depositato nel nostro cuore e non potremo fallire. Proprio come Nehemia.

CONCLUSIONE

I libri biblici di Esdra e Nehemia sono testimoni di un grande miracolo: la risurrezione del popolo di Giuda che, deportato a Babilonia, ormai di dava per distrutto. In questo tempo, Dio ha suscitato singoli uomini per promuovere un prodigioso ritorno e una impegnativa ricostruzione. Prima è stato ricostruito il tempio e poi, con l’entrata in scena di Nehemia, le mura di Gerusalemme che fino a quel momento erano devastate, con le porte consumate dal fuoco. 

In quanto cristiani, da questa vicenda biblica possiamo trarre edificazione e direzione in almeno tre aspetti specifici della nostra fede: l’impegno nella nostra missione, nella crescita del nostro carattere e la nostra integrità nell’essere di esempio. Ogni credente infatti ha in sé il proposito di custodire la fede che Dio ha riposto nei nostri cuori, e alimentarla condividendola sia nei vari contesti quotidiani sia vivendo la realtà di una chiesa locale. Qui infatti ci può essere quella sinergia che il Signore desidera per la sua chiesa, il servizio reciproco che rafforza la fede di ciascuno. Sicuramente poi, ogni cristiano ha una chiamata specifica con doni e eventualmente ministeri che consentono l’offerta di un contributo che resta personale e unico nel suo genere. Ma l’impegno personale, proprio come quello di Nehemia deve essere quello della costanza e della fedeltà alla visione che Dio ha donato. Un secondo aspetto conseguente a questo riguarda quindi proprio l’impegno continuativo nel tempo per poter vedere realizzata l’opera di Dio e il sacrificio necessario a veder plasmato il proprio carattere secondo il carattere del Signore Gesù. Questo processo a volte può essere doloroso, ma è per il nostro bene, e ne vale sempre la pena. Infine, come ultimo punto, vivere questa realtà porta automaticamente a essere degli esempi e ispirare le persone che ci circondano nel seguire le nostre orme, sempre per il bene comune. Sempre per a ricostruzione delle mura di Gerusalemme: la città della presenza di Dio. 

domenica 3 febbraio 2019

Il regno del Figlio

Rendete omaggio al figlio,
affinché il SIGNORE non si adiri
e voi non periate nella vostra via,
perché improvvisa l'ira sua potrebbe divampare.
Beati tutti quelli che confidano in lui!
Salmo 2:12

INTRODUZIONE

Una parte importante dell'eredità cristiana riguarda la consapevolezza di Cristo in quanto Pantocratore, ossia Onnipotente. Pur essendo un aspetto tipico della teologia e dell'arte bizantina (che in un frangente è arrivata all'estremismo eterodosso del monofisismo), essa affonda le proprie radici nel Nuovo Testamento, e proprio per questo risulta essere patrimonio della cristianità tutta. Tra i diversi contributi neotestamentari interessanti a questo riguardo, vorrei approfondire in questa sede solo un breve brano che troviamo nel fondamentale quindicesimo capitolo della Prima lettera ai Corinzi, limitandoci perlopiù alla comprensione di quanto affermato in questo testo. 

Con maggiore probabilità questa lettera è stata scritta dall'Apostolo Paolo durante il soggiorno a Efeso nel suo terzo viaggio missionario, intorno al 55 d.C. Sulla base delle lettere e delle richieste pervenute da parte della comunità, Paolo risponde trattando svariati argomenti che troviamo qui raccolti. Uno dei pericoli dottrinali che la chiesa stava affrontando era promosso da alcuni che negavano la risurrezione dei morti, ed è per questo che l'Apostolo dei gentili scrive anche un accorato discorso sulla sua realtà e sulla sua fondamentale importanza per la fede cristiana, un discorso che troviamo appunto nel quindicesimo capitolo. 

Dopo aver approfondito in un precedente articolo il tema specifico della risurrezione dei morti, e quello della cristologia di Adamo, mi sembra doveroso dedicare ora un'esposizione all'insegnamento che possiamo intitolare "Il regno del Figlio". Andiamo dunque direttamente alla proclamazione cristologica apostolica presa in esame. 

BISOGNA CHE EGLI REGNI

Ma ora Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti. Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati; ma ciascuno al suo turno: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta; poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna ch'egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte. Difatti, Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi; ma quando dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che colui che gli ha sottoposto ogni cosa, ne è eccettuato. Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti.  
1Corinzi 15:20-28

In questo ordine degli eventi escatologici, la risurrezione di Cristo rappresenta solo l'inizio di una nuova epoca. Questa epoca è contraddistinta dall'esordio appena considerato, da una serie di avvenimenti che accadranno in questo tempo e poi da una fine (to telos) che consoliderà un nuovo equilibrio. Il termine originale utilizzato per "fine" si potrebbe tradurre meglio con "il compimento" della storia della salvezza1. La risurrezione del Signore dunque avvia, accelera i processi del piano di Dio riguardante la storia della salvezza, che a un certo punto arriverà al suo compimento definitivo. Quello che in una difesa della risurrezione può esser considerato come tesi, qui invece possiamo considerarlo come assunto preliminare, per poter procedere in questo percorso teologico.   

Le frasi in questione sono abbastanza articolate, ma con una lettura attenta possiamo farvi ordine. In seguito alla risurrezione troviamo dunque che:
  • Bisogna che Cristo regni,
  • che sconfigga ogni nemico,
  • tra i quali anche l'ultimo: la morte.
  • E questo mediante il potere ricevuto del Padre, adempiendo la parola profetica delle Scritture (Sl. 110:1),
  • per poi vedere la risurrezione dei morti e la fine.
  • In seguito alla fine, Cristo consegnerà il suo regno a Dio che è il Padre. 
L'aspetto principale di questa sequenza è quello che mi ha spinto a intitolare in tal modo questo articolo, ossia la descrizione del regno del Figlio. Per attuare il piano del Padre, è necessario infatti che il Figlio regni, e che lo faccia finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. I vocaboli coinvolti nella specifica di questi nemici (principato, ogni potestà e ogni potenza) li portano a essere identificati con le forze celesti o cosmiche che sono considerate concorrenti con la signoria di Dio e di Cristo2. Vediamo dunque che in seguito alla risurrezione del Signore c'è il suo regno. Nel suo regno egli deve esercitare il potere ricevuto dal Padre per sottomettere ogni nemico, e quando questo sarà realizzato (e sarà sconfitta anche la morte) potranno risorgere quelli che sono suoi, in seguito alla sua venuta (il suo ritorno).  

Che caratteristiche ha però il regno di Cristo? Rileviamo che in questi versetti non ci sono ulteriori dettagli a proposito ma possiamo riflettere sul fatto, affermato all'inizio della lettera (1:24), che la predicazione di Cristo crocifisso è potenza e sapienza di Dio. Questa potenza è associata anche alle dimostrazioni di Spirito (2:4) e suggellano la genuinità del messaggio del vangelo e il suo successo decretato non dall'abilità umana di convincimento ma, per l'appunto, dalla potenza di Dio. La potenza di Dio e la dimostrazione dello Spirito sono nella predicazione di Cristo crocifisso e questo, allargando il nostro sguardo ad altri libri neotestamentari, perché è in seguito alla risurrezione che egli ha ricevuto "ogni potere in cielo e sulla terra" (Mt. 28:18). È in seguito alla croce che Cristo ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro (Col. 2:15). Gesù dunque dopo la sua morte e risurrezione ha trionfato sui principati e le potenze, e ha ricevuto dal Padre ogni potere in cielo e sulla terra proprio come affermato nel Salmo 110: "Il SIGNORE ha detto al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi»." In questo versetto citato altrove anche da Gesù stesso, comprendiamo come il Padre ha condiviso con il Figlio la pienezza di potere e governo, e questo proprio nel tempo presente. In effetti è sulla base di questa onnipotenza di Cristo che è stata fondata la Chiesa e che essa può adempiere al suo compito di discepolato e battesimo delle nazioni nel mondo sulla base delle indicazioni di Gesù stesso (Mt. 28:18-20).

Ecco, aggiungendo questi altri indizi possiamo tracciare ora un quadro più completo sul regno del Figlio. Un regno iniziato con la sua morte e risurrezione, in seguito alla quale egli ha ricevuto ogni potenza dal Padre per sconfiggere le potenze spirituali della malvagità e per edificare la sua Chiesa, con il proposito di discepolare e battezzare persone di ogni popolo. Un tempo dunque nel quale portare a compimento un trionfo già raggiunto, e questo sempre nello scopo della salvezza dell'uomo, attraverso la predicazione di Cristo crocifisso: sapienza e potenza di Dio, luogo di dimostrazione di Spirito e potenza. Questo regno però non finisce qui. Cristo infatti dovrà sconfiggere anche altri nemici, tra i quali la morte stessa, e questo intervenendo in prima persona come ulteriore manifestazione del suo regno. È in questo contesto e in seguito a questi eventi che troviamo nell'Apocalisse di Giovanni la descrizione del famoso regno messianico millenario (o milleniale, su derivazione anglosassone), anch'esso già approfondito in un altro contesto. E dopo la sconfitta della morte, e la risurrezione dei suoi, egli sottometterà infine il suo regno a Dio Padre. Lo scopo finale di tutto il processo infatti è quello della gloria di Dio: ossia l'attuazione della sua assoluta sovranità per essere tutto in tutti. Il contesto immediato suggerisce di interpretare la frase panta en pasin, nel senso che Dio sarà presente e operante sovranamente in "tutta la realtà" creata3, in una nuova ed eterna armonia.


CONCLUSIONE 

La risurrezione del Signore inaugura quella che in teologia si chiama "escatologia anticipata", ossia l'anticipazione di una condizione che sarà compiuta solo negli "ultimi giorni". Nella croce Cristo ha vinto sui principati e le potenze spirituali, con la risurrezione egli ha ricevuto dal Padre ogni potere in cielo e sulla terra. Risulta necessario dunque che regni per portare a compimento la sua vittoria sui nemici, e questo sia attraverso la predicazione del vangelo e l'espansione della Chiesa nella storia sia attraverso il suo ritorno e la sconfitta definitiva di tutti gli ultimi nemici e della morte alla fine della storia. In questo quadro generale è di consolazione e incoraggiamento sapere che il potere della Chiesa non si appoggia sulle proprie virtù ma sull'aderenza al messaggio del vangelo, dove per volontà di Dio dimora la sua potenza e la manifestazione dello Spirito Santo. In seguito alla sconfitta della morte, tutti noi credenti risorgeremo e per ultima cosa l'intero regno sarà restituito nelle mani del Padre affinché la sua signoria e la sua gloria possa essere completa e possa coinvolgere tutti i santi in quanto parte attiva del suo proposito.

In questo contesto dunque possiamo dire di conoscere la grazia del regno del Figlio nel tempo presente, anche se assisteremo al suo intervento diretto solo nel momento del suo ritorno. Come aspetto ancora più importante, infine, la sua stessa risurrezione risulta essere una anticipazione della speranza che coinvolge ogni credente: la speranza fondata che vede nella morte non un capolinea ma solo una penultima fermata, prima di tornare alla vita e contemplare per l'eternità la benedizione della luce e del volto di Dio.



Note:

[1] Cfr. Rinaldo Fabris, Prima Lettera ai Corinzi, Milano, Paoline, 1999, p. 204.  

[2] Id. Ibid.  
[3] Id. Ibid. p. 205.
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