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martedì 18 luglio 2017

La mia gioia più grande

"L'uomo buono lascia un'eredità ai figli dei suoi figli,
ma la ricchezza del peccatore è riservata al giusto." 
Proverbi 13:22 

 DEDICA


























Questo articolo è speciale 
perché dedicato a mia figlia,
Gioia Galliani,
nata oggi. 



 L'ANZIANO, AL CARISSIMO GAIO...

La Terza Lettera di Giovanni è lo scritto più breve del Nuovo Testamento: 220 parole1 e 15 versetti in tutto. A differenza della prima lettera, e in parte della seconda, il suo tema non è di carattere dottrinale, ma risponde a una questione sull'ospitalità: il responsabile di una chiesa locale (Diotrefe) infatti non era stato ospitale nei confronti dei collaboratori dell'autore (v. 9). Questo viene denunciato proprio nella nostra epistola, indirizzata ad un altro credente: il carissimo Gaio. Non si può escludere che Gaio e Diotrefe fossero capi famiglia di diverse comunità poste nella stessa città.2 L'ospitalità nei confronti dei missionari cristiani era fondamentale per la diffusione della verità (v. 8), che trovava ostacolo proprio nella grande distanza tra i diversi gruppi di credenti localizzati probabilmente nei principali centri urbani.3 Da questo fatto quindi, deriva l'occasione di scrittura della lettera. La sua data ed il luogo di redazione invece vengono comunemente circoscritti tra la fine del I e l'inizio del II secolo, probabilmente vicino a Efeso, nella regione dell'Asia minore.4 

È alla fine del I secolo, dunque, che Giovanni scrive a Gaio, iniziando la sua lettera con le seguenti parole:

L'anziano al carissimo Gaio, che io amo nella verità. Carissimo, io prego che in ogni cosa tu prosperi e goda buona salute, come prospera l'anima tua. Mi sono rallegrato molto quando sono venuti alcuni fratelli che hanno reso testimonianza della verità che è in te, del modo in cui tu cammini nella verità. Non ho gioia più grande di questa: sapere che i miei figli camminano nella verità.
3Giovanni 1-4

Nella presentazione come "anziano", la tradizione cristiana vede un riferimento dell'apostolo Giovanni alla sua autorità di testimone oculare del Signore dovuta all'età avanzata5, mentre altri si interrogano sulla possibilità di un altro credente che, avendo lo stesso nome, avrebbe svolto il ministero di anziano/presbitero nella chiesa di Efeso alla fine del I secolo.6 Egli scrive in modo estremamente confidenziale, mostrando sin da subito il grande affetto e la grande stima per il destinatario Gaio. Afferma infatti immediatamente di amarlo nella verità, e di pregare per la sua prosperità e salute. Troviamo come indicazione il fatto che alcuni fratelli avevano fatto visita a Giovanni testimoniando della verità che era in Gaio, e tutto questo viene riportato come la fonte della sua gioia più grande. Evidentemente Gaio era un figlio spirituale di Giovanni (come Timoteo e Tito lo erano per Paolo: cfr. 1 Tim. 1:2 e Tito 1:4) e la notizia della sua irreprensibilità viene colta da un moto di gioia: non ho gioia più grande di questa: sapere che i miei figli camminano nella verità. Questo tipo di gioia e questo tipo di profondo legame nella fede è caratteristico dell'attività cristiana missionaria descritta nel Nuovo Testamento. Solo per citare due esempi, troviamo infatti la gioia dell'apostolo Paolo quando apprende che i credenti di Tessalonica evangelizzati da poco tempo erano restati fermi nella fede nonostante le persecuzioni:7

Perciò anch'io, non potendo più resistere, mandai a informarmi della vostra fede, temendo che il tentatore vi avesse tentati, e la nostra fatica fosse risultata vana. Ma ora Timoteo è ritornato e ci ha recato buone notizie della vostra fede e del vostro amore, e ci ha detto che conservate sempre un buon ricordo di noi e desiderate vederci, come anche noi desideriamo vedere voi. Per questa ragione, fratelli, siamo stati consolati a vostro riguardo, a motivo della vostra fede, pur fra tutte le nostre angustie e afflizioni; perché ora, se state saldi nel Signore, ci sentiamo rivivere. Come potremmo, infatti, esprimere a Dio la nostra gratitudine a vostro riguardo, per la gioia che ci date davanti al nostro Dio, mentre notte e giorno preghiamo intensamente di poter vedere il vostro volto e di colmare le lacune della vostra fede?
1Tessalonicesi 3:5-10

La notizia della fermezza nella fede di questi credenti fa sentire Paolo - angustiato e afflitto per mille problemi e difficoltà - addirittura come rivivere. Lo fa sentire gioioso davanti a Dio! Ma questo non avviene solo nei loro riguardi. Infatti nella lettera scritta ai credenti di Filippi leggiamo:

Perciò, fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia, state in questa maniera saldi nel Signore, o diletti!
Filippesi 4:1

Anche in questo caso, la fermezza della fede dei credenti raggiunti dal Vangelo grazie all'apostolo, è da lui direttamente collegata alla propria allegria e gioia, anzi: addirittura alla propria corona, il premio celeste!8 Questi due esempi, uniti al testo della Terza Lettera di Giovanni, delineano con grande chiarezza l'intenso sentimento e l'enorme partecipazione che legavano gli apostoli - i ministri della Parola, cfr. Atti 6:4 - nella loro attività missionaria con le persone che ricevevano il messaggio del Vangelo e, convertendosi, aderivano alla sequela di Cristo. Era la gioia più grande vedere che la salvezza di Dio in Cristo Gesù toccava così tante persone, e in modo così radicale e permanente. E tale deve essere anche al giorno d'oggi. Il legame che si instaura viene frequentemente paragonato a quello tra un padre e i propri figli (cfr. 1 Cor. 4:14) piuttosto che a quello di un maestro con i propri discepoli. Paolo arriva a dire ai corinzi di averli generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo (1 Cor. 4:15), implicando quindi di conseguenza di essere loro genitore spirituale. Naturalmente, a maggiore ragione l'educazione cristiana e la conversione dei propri figli naturali è fonte di doppia benedizione e gioia. Sin dall'Antico Testamento apprendiamo che un figlio saggio rallegra suo padre (Pr. 10:1), i padri sono la gloria dei loro figli (Pr. 17:6) e i figli del giusto che camminano in modo integro sono beati (Pr. 20:7). Per non parlare della realtà familiare, contesto fondamentale nel quale Dio si rivela ad Abramo e promette a lui proprio un figlio come inizio di una innumerevole discendenza. Nel Nuovo Testamento troviamo ancora Timoteo, che era stato educato sinceramente nella fede da sua madre Eunice e sua nonna Loide (2 Tim. 1:5). Ma vediamo anche che il rispetto dei figli nella famiglia rende adatto (rispondendo anche alle altre caratteristiche elencate) un padre di famiglia all'incarico di vescovo (1 Tim. 3:2). Nel nuovo patto scopriamo che i credenti, essendo stati adottati dal Padre celeste attraverso il Signore Gesù, diventano parte della famiglia di Dio (Ef. 2:19), e quindi a maggior ragione coloro che sono parte di una famiglia naturale che aderisce insieme al Vangelo possono vivere nella pienezza della gioia e nella genuinità quotidiana della loro fede. Per questo motivo, il pastore riformato Jon D. Payne nel suo libro relativo alla rivalutazione della liturgia riformata presenta l'adorazione domestica come "una delle più belle espressioni del Vangelo nella vita familiare".9 E per lo stesso motivo il riformatore Martin Lutero presentando il suo Piccolo Catechismo ai pii pastori e predicatori, sottolinea la responsabilità dei genitori nel governo cristiano della famiglia.10 Sono le famiglie le unità fondamentali di ogni comunità, e di conseguenza la corretta devozione personale e familiare non può che stare alla base della salute spirituale di qualsiasi chiesa locale. Nel cuore dei padri volto verso i figli e nel cuore dei figli volto verso i padri, si passerà indenni nel giorno del Signore (cfr. Mal. 4), e in questa stessa comunione familiare e spirituale viene stabilita la gioia nello Spirito Santo. Questa è la gioia che viene allargata anche alla chiesa, questo è il tipo di gioia che viene vissuta nell'evangelizzazione e nel discepolato personale. Penso che sia molto importante evidenziare proprio questa realtà per poter vivere serenamente in contesti che altrimenti possono portare anche alla frustrazione. La logica del Regno di Dio non è una logica di crescita aziendale, ma di crescita spirituale, la sua gioia non è radicata nell'accumulo ma nel dono di sé e nel ricevimento di questo dono da parte degli altri. Donando amore e fede nella propria famiglia, presto o tardi si vedrà il loro sviluppo naturale fiorendo e portando frutto nel cuore degli altri membri. Donandoli nella propria comunità, o nelle persone che ancora non conoscono il Signore, allo stesso modo si raggiungerà il momento in cui riconoscere il frutto di questa semina, e raggiungere la gioia più grande. Certo, con pazienza. Al contrario, non ricevere a casa propria (v. 9), non ricevere nel proprio cuore, porterà divisione. Una divisione dalla quale ne escono tutti sconfitti. Alla fine, questo è il tema centrale della Terza Lettera di Giovanni: imitare il bene, non il male. Accogliere il prossimo, e non respingerlo. Diffondere la verità, e non nasconderla. E in questo modo, raggiungere la gioia più grande: la perfetta armonia tra più generazioni, naturali e spirituali.

CONCLUSIONE

























La Terza Lettera di Giovanni, pur essendo il più breve testo del Nuovo Testamento, e pur non trattando argomenti dottrinali, apre un'illuminante finestra sulla corretta attitudine cristiana e sulla grande gioia che essa può procurare. Nel cuore del suo contesto, ci insegna molto sulla vita missionaria e sulla benedizione di un discepolato che segua le orme di Cristo, ci mette in guardia dalla sete di potere nella chiesa e dal rifiuto della comunione e dell'ospitalità, ed infine ci incoraggia esplicitamente ad imitare il bene e non il male (v. 11). 

Ad un secondo livello più generale, questa lettera evidenzia la grandissima gioia che lega i ministri della Parola ed i credenti più maturi (genitori spirituali) con i discepoli più giovani nella fede (figli spirituali); e specularmente come questa stessa gioia può essere trasportata anche nella famiglia vera e propria quando le sue relazioni di sangue vengono suggellate dalla comune fede nel Signore. 

Ringraziamo il Signore per le nostre relazioni: nella famiglia, nella fede e nella società. In esse infatti possiamo avere le più grandi sfide della nostra vita, ma è proprio lì che il Signore ha deciso di offrirci le più grandi possibilità di gioia e benedizione. Accogliamo il prossimo, doniamo con gioia, preghiamo ferventemente e, affidandoci completamente al Signore, potremo dire assieme a Giovanni:
non ho gioia più grande di questa: sapere che i miei figli camminano nella verità.

Ecco, i figli sono un dono che viene dal SIGNORE;
il frutto del grembo materno è un premio.
Come frecce nelle mani di un prode,
così sono i figli della giovinezza.
Beati coloro che ne hanno piena la faretra!
Non saranno confusi
quando discuteranno con i loro nemici alla porta.

Salmo 127:3-5




Note:

[1] Josep-Oriol Tuni, Xavier Alegre, Scritti giovannei e lettere cattoliche (1997), Paideia, p. 158. 
[2] Id. Ibid., 159.
[3] Id. Ibid
[4] Id. Ibid., 160.
[5] La Sacra Bibbia con note e commenti di John MacArthur (2007), Società biblica di Ginevra, p. 1991.
[6] Cfr: 
- J.-O. Tuni, X. Alegre, Scritti giovannei e lettere cattoliche (1997), Paideia, p. 159.  
- Papia presso Eusebio, Hist. Eccl. 3,39,3,4 
- Decretum Gelasianum 
[7] Per approfondire il contesto di questo brano:
http://www.davidegalliani.com/2016/01/il-frutto-dellapostolato-parte-ii-una.html

[8] Cfr. 1 Cor. 9:25.
[9] Jon D. Payne, Nello spendore della santità, BE edizioni, p. 45.  
[10] Martin Lutero, Il Piccolo Catechismo - a cura di Fulvio Ferrario, Claudiana (2015), p. 25. 

giovedì 8 giugno 2017

La teofania del Sinai (parte I)

Il SIGNORE è venuto dal Sinai,
è spuntato per loro dal Seir,
ha sparso la sua luce dal monte di Paran,
è venuto dalle miriadi sante;
dalla sua destra usciva il fuoco della legge per loro.
Deuteronomio 33:2

INTRODUZIONE

Il libro dell'Esodo, secondo della Bibbia e del Pentateuco, riprende la narrazione dalla conclusione del libro di Genesi, dopo la morte di Giuseppe:

Questi sono i nomi dei figli d'Israele che vennero in Egitto. Essi ci vennero con Giacobbe, ciascuno con la sua famiglia: Ruben, Simeone, Levi e Giuda; Issacar, Zabulon e Beniamino; Dan e Neftali, Gad e Ascer. Tutte le persone discendenti da Giacobbe erano settanta. Giuseppe era già in Egitto. Giuseppe morì, come morirono pure tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione. I figli d'Israele furono fecondi, si moltiplicarono abbondantemente, divennero numerosi, molto potenti e il paese ne fu ripieno.
Esodo 1:1-7

In seguito ai duri lavori forzati imposti da un nuovo faraone, i figli di Israele soffrono per lungo tempo, pur continuando a moltiplicarsi, diventando così sempre più numerosi. Secondo le parole profetiche dello stesso Giuseppe però (Gn. 50:24),  arriva il momento in cui, sentendo le grida che la schiavitù strappava ai figli di Israele, Dio si ricorda del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe, e chiama Mosè - di discendenza levitica ma istruito come nobile egiziano - per liberare tutto il popolo dall'oppressione egiziana e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso. Si manifesta a lui su un monte sacro, chiamato  dal testo biblico talvolta Oreb e altre volte Sinai. Da qui inizia il racconto delle dieci piaghe che Dio manda sull'Egitto per obbligare il faraone a lasciare andare in libertà i figli di Israele, la fuga prodigiosa attraverso il Mar Rosso,  la marcia nel deserto e l'arrivo di tutto il popolo al monte Sinai, dove potrà stipulare la speciale alleanza che Dio aveva stabilito per loro. Considerando il Pentateuco nel suo insieme, è possibile rilevare uno schema ben preciso negli episodi e nei percorsi descritti, uno schema che è possibile sintetizzare nel seguente modo:1

  • Egitto (Esodo 1:1-15:21)
  • Deserto (Esodo 15:22-18:27)
  • Sinai (Esodo 19-40; Levitico; Numeri 1:1-10:10)
  • Deserto (Numeri 10:11-21:35)
  • Moab (Numeri 22-36) 

L'Egitto è il punto di partenza, Moab è quello di arrivo: la conclusione della marcia. Il Sinai occupa invece il posto centrale della struttura, e teologicamente non può che essere così: qui Jahvé si mostra per la prima volta al popolo di Israele, qui viene stabilita l'alleanza, qui viene data la Legge. Se consideriamo invece il solo libro dell'Esodo, possiamo identificare questa struttura generale:2

- Uscita dall'Egitto (1:1-15:21)
- Marcia attraverso il deserto (15:22-18:27)
- Avvenimenti del Sinai (19-40)

La prima e la terza sezione sono le più ampie e anche quelle che hanno il maggiore peso e rilevanza; la seconda parte è una sorta di ponte che necessariamente funge da collegamento tra le altre due.3 Entrando nel dettaglio dell'ultima parte  - dedicata agli avvenimenti del Sinai - questa si apre con il fondamentale brano che tratta la stipulazione dell'alleanza, un brano che a livello formale risulta strutturato in queste sezioni:4

  • a) Preambolo: proposta dell'alleanza (19:1-8a)
  • b) Istruzioni per la teofania (19:8b-15)
  • c) Teofania (19:16-25)
  • d) IL DECALOGO (20:1-17)
  • c') Teofania (20:18-20)
  • d') Codice dell'alleanza (20:21-23:19)
  • b') Istruzioni per l'ingresso in Canaan (23:20-33)
  • a') Stipulazione dell'Alleanza (24:1-11)  

Il fulcro di questa unità letteraria è senza dubbio costituito dal decalogo, presentato in ebraico come "le dieci parole". Queste parole divine sono incastonate in due descrizioni della teofania, ossia nelle manifestazione sensibili di Jahvè. Allontanandoci dal centro, vediamo come le dieci parole e le teofanie sono a loro volta circondate da istruzioni e, nel cerchio più esterno, dalla proposta dell'alleanza e dall'alleanza stessa. L'alleanza rimanda al decalogo e il decalogo rimanda all'alleanza, in una perfetta simmetria. Questo termine, traduce l'ebraico berìt, il cui significato è "impegno", "obbligo", imposto o condiviso.5 Diversi studiosi moderni hanno approfondito le similitudini testuali tra l'alleanza biblica sinaitica e i formulari di alleanza usati nei trattati internazionali nel Vicino Oriente Antico, sia ittiti (XIV-XIII sec. a.C.) sia aramaici e assiri (VIII-VII a.C.), trovando in essi dei punti di contatto.6 Riscontri di fondamentale importanza teologica si trovano invece all'interno dei vari testi biblici: prima di Mosè infatti, Jahvè strinse alleanze  personali con Adamo, Noè ed Abramo.7 Queste alleanze, insieme con le successive, costituiscono l'oggetto di studio della cosiddetta teologia del patto, oltre che della teologia biblica più in generale.8 In questo contesto, l'attenzione di questa nuova serie di articoli vuole concentrarsi  nell'analisi esegetica dei capitoli 19-24 dell'Esodo, capitoli di primaria importanza per l'intera storia biblica. Di fronte alle numerose difficoltà linguistiche, testuali, storiche e teologiche, l'intento non è sicuramente quello di contribuire in modo innovativo o completo, quanto piuttosto offrire degli strumenti e informazioni introduttive utili a chi desidera iniziare ad avvicinarsi a questo testo, fondamentale non solo per l'ebraismo ed il cristianesimo, ma anche per l'intera civiltà occidentale.

1. LA PROPOSTA DI ALLEANZA


Nel primo giorno del terzo mese, da quando furono usciti dal paese d'Egitto, i figli d'Israele giunsero al deserto del Sinai. Partiti da Refidim, giunsero al deserto del Sinai e si accamparono nel deserto; qui Israele si accampò di fronte al monte.

Mosè salì verso Dio e il SIGNORE lo chiamò dal monte dicendo: «Parla così alla casa di Giacobbe e annuncia questo ai figli d'Israele: "Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotti a me. Dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa". Queste sono le parole che dirai ai figli d'Israele». Allora Mosè venne, chiamò gli anziani del popolo ed espose loro tutte queste parole che il SIGNORE gli aveva ordinato di dire. Tutto il popolo rispose concordemente e disse: «Noi faremo tutto quello che il SIGNORE ha detto».
Esodo 19:1-8a

Iniziamo da questo punto il nostro viaggio attraverso il cuore dell'Esodo e dell'alleanza tra Dio e il popolo di Israele. I primi due versetti costituiscono il titolo e l'ambientazione del testo, l'inizio del preambolo. Il racconto in sé risulta strutturato in modo concentrico (come l'unità letteraria più ampia): al centro troviamo l'oracolo di Jahvè e all'esterno troviamo la salita al monte di Mosè e la sua discesa, oltre alla risposta finale del popolo.9 L'oracolo costituisce il nucleo di questo inizio, il presupposto dal quale potranno avvenire tutti gli avvenimenti successivi. Il popolo di Israele ha compiuto il percorso che inizialmente era stato di Mosè, e in modo simile adesso sta per incontrare la manifestazione del Dio che li ha liberati. Se Mosè fu chiamato da un roveto ardente che non si consumava (3:4), Israele invece sarà convocato all'alleanza in modo ancora più solenne e grandioso. Il ruolo di Mosè però resta comunque di primo piano, in quanto unico intermediario da Jahvè e i figli di Israele. In questo testo infatti è proprio lui a salire al monte per la prima delle tre volte riportate in questo capitolo (3, 8b, 20), ed è sempre lui a ricevere le parole del Signore.

Il programma divino appare inedito, ha un tono poetico e si svolge su tre orizzonti: il passato, il presente ed il futuro.10 In relazione al passato, Jahvé ricorda il suo intervento liberatore, il fatto di aver preso Israele ed averlo  portato sopra ali d'aquila fino alla sua presenza. Nella tradizione veterotestamentaria, le ali sono simbolo di intimità e protezione, e il volo dell'aquila rappresenta lo svezzamento materno di Dio, che si fa nido di Israele.11 La sua cura pertanto si è dimostrata  concreta e assoluta, ed è ora garanzia della bontà di quello che viene proposto. Il condizionale che apre il successivo orizzonte nel tempo presente testimonia non una imposizione ma una proposta di alleanza: in Egitto, Dio non poteva esprimersi come fa ora, perché Israele era ancora schiavo; adesso invece, egli lo interpella come un soggetto libero e adulto, pienamente responsabile del suo futuro.12 Le condizioni per aderire all'alleanza sono due: ascoltare davvero la voce di Dio ed osservare/custodire il patto stesso. Udire e ubbidire, vivere in modo fedele. Da parte sua invece, all'osservanza di questi impegni il Signore promette  prima di tutto di trasformare Israele nella sua proprietà/tesoro particolare. Questo termine, reso in ebraico con segullah, distingue originariamente all'interno di un intero gregge affidato a un pastore, quella parte che gli appartiene come suo possesso personale.13 Poi, promette che essi diventeranno un regno di sacerdoti, ossia un regno responsabile dell'intermediazione tra Jahvé e tutti gli altri popoli, il mezzo della benedizione divina per tutte le altre nazioni.14 Ed infine, una nazione santa: una nazione vera e propria, come tutte le altre, ma riservata esclusivamente per Dio.15

Dopo aver ascoltato con attenzione, Mosè torna a valle, convoca gli anziani del popolo ed espone loro questa proposta. Di fronte a queste promesse, e alle rispettive condizioni, gli anziani insieme al resto del popolo prendono unanimemente la loro decisione: «Noi faremo tutto quello che il SIGNORE ha detto». All'adesione a questa proposta, l'alleanza può essere siglata.
2. ISTRUZIONI PER LA TEOFANIA









E Mosè riferì al SIGNORE le parole del popolo. Il SIGNORE disse a Mosè: «Ecco, io verrò a te in una fitta nuvola, affinché il popolo oda quando io parlerò con te, e ti presti fede per sempre». E Mosè riferì al SIGNORE le parole del popolo. Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Va' dal popolo, santificalo oggi e domani; fa' che si lavi le vesti. Siano pronti per il terzo giorno; perché il terzo giorno il SIGNORE scenderà in presenza di tutto il popolo sul monte Sinai. Tu fisserai tutto intorno dei limiti al popolo, e dirai: "Guardatevi dal salire sul monte o dal toccarne i fianchi. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano dovrà toccare il colpevole: questo sarà lapidato o trafitto con frecce; animale o uomo che sia, non dovrà vivere!" Quando il corno suonerà a distesa, allora essi potranno salire sul monte». E Mosè scese dal monte verso il popolo; santificò il popolo, e quelli si lavarono le vesti. Mosè disse al popolo: «Siate pronti fra tre giorni; non avvicinatevi a donna».
Esodo 19:8b-15

Questo brano continua il racconto, aprendosi con la seconda salita di Mosè al monte di Dio. Da qui, in quanto mediatore, egli riporta a Jahvé la decisione del popolo, e riceve da lui tutte le istruzioni necessarie per prepararsi alla discesa della sua presenza. Il Signore preannuncia il suo arrivo in una fitta nuvola, secondo una tradizione consolidata in tutto l'Antico Testamento. La gloria di Dio infatti si rende visibile in una nuvola non solo in questo brano cruciale, ma anche nella precedente marcia nel deserto (Es. 13:21), nella successiva costruzione del tabernacolo (Nu. 9:15) e nelle rispettive tradizioni (Sl. 78:14, Sl. 99:7), oltre che nelle aspettative future (Is. 4:5) e in altre apparizioni (Gb. 38:1). L'intenzione dichiarata è quella di mostrarsi sensibilmente per convincere il popolo della credibilità di Mosè e del suo ruolo profetico. Le indicazioni in sé invece riguardano la santificazione di tutto il popolo per due giorni, secondo il comando di lavare le proprie vesti e non toccare il monte finché il corno (del montone) non sarebbe suonato a distesa. Alla disubbidienza di quest'ultimo ordine, i trasgressori sarebbero dovuti essere messi a morte per lapidazione o per frecce: sistemati in una buca e colpiti a morte da questi oggetti. Tutto questo, perché nel terzo giorno il Signore stesso sarebbe sceso in presenza di tutto il popolo sul monte Sinai. Con queste istruzioni Mosè ridiscende nuovamente la montagna per tornare dal popolo e, raccontando ogni cosa, specifica anche il divieto di avere rapporti sessuali per preservare la propria purezza nei giorni seguenti, secondo una prescrizione che sarebbe stata fissata da lì a breve:

Se una donna avrà rapporti sessuali con un uomo affetto da tale emissione seminale, si laveranno tutti e due nell'acqua e saranno impuri fino a sera.
Levitico 15:18

L'aspettativa e la tensione in questo testo salgono ulteriormente: il terzo giorno sta per arrivare: il giorno della manifestazione gloriosa e potente di Dio.


3. LA TEOFANIA

Il terzo giorno, come fu mattino, ci furono tuoni, lampi, una fitta nuvola sul monte e si udì un fortissimo suono di tromba. Tutto il popolo che era nell'accampamento tremò. Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento per condurlo a incontrare Dio; e si fermarono ai piedi del monte. Il monte Sinai era tutto fumante, perché il SIGNORE vi era disceso in mezzo al fuoco; il fumo saliva come il fumo di una fornace, e tutto il monte tremava forte. Il suono della tromba si faceva sempre più forte; Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il SIGNORE dunque scese sul monte Sinai, in vetta al monte; e il SIGNORE chiamò Mosè sulla vetta del monte, e Mosè vi salì. Il SIGNORE disse a Mosè: «Scendi, avverti solennemente il popolo di non fare irruzione verso il SIGNORE per guardare, altrimenti molti di loro periranno. Anche i sacerdoti che si avvicinano al SIGNORE, si santifichino, affinché il SIGNORE non si avventi contro di loro». Mosè disse al SIGNORE: «Il popolo non può salire sul monte Sinai, poiché tu ce lo hai vietato dicendo: "Fissa dei limiti intorno al monte, e santificalo"». Ma il SIGNORE gli disse: «Va', scendi; poi risalirai insieme ad Aaronne. Ma i sacerdoti e il popolo non facciano irruzione per salire verso il SIGNORE, affinché egli non si avventi contro di loro. Mosè scese verso il popolo e glielo disse.
Esodo 19:16-25

I segni della teofania sono tuoni, lampi, una fitta nuvola e un suono di tromba. Successivamente, nel momento in cui il Signore scende sul monte, egli lo fa in mezzo al fuoco e un terremoto (un'eruzione vulcanica?). Nella terza e ultima porzione di Esodo vi sono in tutto cinque teofanie simili: Es. 19-20; 24:1-2, 9-11; 24.15b-18; 33 e 34.16 Questi segni però ricorrono non soltanto qui, ma anche in contesti biblici diversi, come per esempio la chiamata profetica di Isaia (Is. 6) e addirittura, nel Nuovo Testamento, nella visione celeste del trono di Dio nell'Apocalisse di Giovanni. Secondo l'ipotesi documentaria la mescolanza di elementi temporaleschi con elementi vulcanici costituirebbe un rilevante indizio sulla presenza di due diverse fonti letterarie, quella Jahvista e quella Elohista; tuttavia la densità del brano in questione è tale da resistere a qualsiasi sforzo di eliminare le tensioni interne mediante la critica delle fonti o attraverso la separazione logica degli elementi associati alle immagini del vulcano o della tempesta.17 Il reale si mescola al simbolico, il naturale al soprannaturale, in una sorta di impressionante liturgia cosmica, spaventosa e affascinante.18 Gli elementi visivi si fondono con quelli uditivi, raggiungendo l'apice nel dialogo tra Dio e Mosè (v. 19).19 Il popolo se ne sta immobile, tutto tremante, ai piedi del monte, contemplando e ascoltando.20 Il tremore del popolo trova corrispondenza nel tremore del monte: il verbo harad  infatti si usa in relazione a persone, come sarà tradotto nella LXX.21 La tromba in questo caso identifica il corno di stambecco, dal suono meno cupo e più netto rispetto a quello di montone descritto nel v.13, in un'immagine che intende imitare il sibilo del vento.22 Mosè sale ora per la terza volta sul monte santo, e viene  nuovamente avvertito perentoriamente di non far salire nessuna persona del popolo - neppure i sacerdoti -, pena la morte.  Viene invitato a ribadire questo divieto ai figli di Israele scendendo da loro, e a risalire nuovamente, questa volta non da solo ma con suo fratello Aaronne. Mosè ubbidisce ancora una volta, avvicinandosi in questo modo ancora di più alla rivelazione delle dieci parole di Dio.

CONCLUSIONE














In questo primo articolo abbiamo approfondito il diciannovesimo capitolo del libro di Esodo, ossia il testo che apre la terza parte di questo libro e introduce il nucleo di tutta la sezione dei capitoli 19-24, costituito dai famosi Dieci Comandamenti. Questi ultimi saranno l'oggetto del prossimo articolo, che continuerà questa serie appena inaugurata.

Nel percorso che porta alle parole di Jahvè, abbiamo trovato la proposta di alleanza offerta al popolo di Israele, la sua dichiarazione di adesione, le istruzioni da seguire per l'imminente manifestazione divina, e infine l'arrivo della presenza stessa di Dio sul monte Sinai. Il linguaggio biblico relativo alla teofania risulta codificato in modo specifico e ricorrente anche in altri contesti, e risponde all'arduo compito di descrivere l'indescrivibile. Il monte, luogo di contatto tra cielo e terra, diventa quindi lo scenario nel quale Dio si manifesta a tutto Israele per stabilire con lui un'alleanza unica ed esclusiva, così come non sarà vissuta da nessun altro popolo o nazione. Questo però è reso possibile dall'intermediazione di Mosè, chiamato da Dio proprio su questo monte per liberare Israele dalla schiavitù egiziana, ed ora confermato come profeta esclusivo e portavoce delle parole divine. La vicinanza di Dio con Mosè è unica, e rispecchia la grande cura riservata per l'intero popolo di Israele, preso dalla schiavitù e condotto dal Signore su ali d'aquila sino alla sua presenza.  

O Dio, quando tu uscisti alla testa del tuo popolo,
quando avanzasti attraverso il deserto, [Pausa]
la terra tremò; anche i cieli si sciolsero in pioggia davanti a Dio;
lo stesso Sinai tremò davanti a Dio,
al Dio d'Israele.
O Dio, tu mandasti una pioggia benefica
sulla tua eredità esausta, per ristorarla.
Salmo 68:7-9



Note:
[1] Félix Garcìa Lòpez, Il Pentateuco, Paideia (2004), p. 111.
[2] Id. Ibid. p. 110.
[3] Id. Ibid.
[4] Antonio Nepi, Esodo (Capitoli 16-40), Edizioni Messaggero Padova (2004), p. 64. 
[5] F. G. Lòpez, Il Pentateuco, Paideia (2004), p. 152.
[6] Id. Ibid.
[7] Id. Ibid.
[8] Per approfondire: Michael G. Brown, Zach Keele, Il vincolo sacro, BE edizioni (2016).  
[9] A. Nepi, Esodo (Capitoli 16-40), Edizioni Messaggero Padova (2004), p. 68.
[10] Id., Ibid. p. 70.
[11] Id., Ibid. p. 71.
[12] Id., Ibid. p. 72.
[13] Id., Ibid.
[14] Id., Ibid. p. 73.
[15] Id., Ibid. p. 74.
[16] F. G. Lòpez, Il Pentateuco, Paideia (2004), p. 156. 
[17] Id. Ibid.
[18] Id. Ibid.
[19] Id. Ibid.
[20] Id. Ibid.
[21] Bernardo G. Boschi, Esodo, Paoline, p. 104.
[22] Id. Ibid.

martedì 23 maggio 2017

Il trono di Dio: commento al quarto capitolo dell'Apocalisse di Giovanni

Il SIGNORE è nel suo tempio santo;
il SIGNORE ha il suo trono nei cieli;
i suoi occhi vedono,
le sue pupille scrutano i figli degli uomini.
Salmo 11:4 

INTRODUZIONE 

L'apostolo Giovanni a Patmos, litografia di G. Dorè
L'Apocalisse di Giovanni è senza dubbio il libro più criptico del Nuovo Testamento. Per sua stessa natura infatti, rispondendo al genere letterario apocalittico, esso cela il suo significato dietro a simboli, numeri e immagini comprensibili soltanto ai membri della propria comunità, ma impenetrabili alle spie ed ai censori dell'impero - in questo caso - romano.1 Per poter essere interpretata correttamente quindi, è importante collocarla nel suo contesto storico e letterario, ed ottenere da questa comprensione le "chiavi" necessarie ad accedere al suo messaggio originario.2 Sicuramente un ruolo di primo piano a questo riguardo è riservato all'Antico Testamento, le cui citazioni e allusioni (soprattutto riguardanti i libri dell'Esodo, di Ezechiele e Daniele) sono presenti in grande concentrazione. Sommariamente infatti, possiamo accomunare tanto questi libri veterotestamentari quanto l'Apocalisse di Giovanni con la descrizione (storica e profetica) di una liberazione del popolo di Dio operata dal suo diretto intervento. Che siano gli egiziani, i babilonesi, i seleucidi, i romani o un impero futuro, i dominatori di questo mondo devono comunque rispondere delle proprie azioni direttamente a Dio, e pagare il prezzo eterno della persecuzione operata contro Israele e/o contro la Chiesa. Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di scrivere numerosi articoli su queste tematiche, ai quali rimando per una introduzione più esaustiva. Sulla successione dei grandi imperi mondiali dal punto di vista biblico, ho scritto "Il regime satanico". Sul commento dei primi tre capitoli dell'Apocalisse (1-3) ho scritto degli articoli dedicati alle "Sette lettere". Infine, come introduzione generale e come commento agli ultimi quattro capitoli (19-22), ho scritto "L'Apocalisse di Giovanni e il compimento del Regno di Dio". In ogni caso, questa introduzione sarà sufficiente per la lettura  e la comprensione del presente articolo, che si inserisce in questa costellazione di approfondimenti pur rimanendo leggibile ed usufruibile a sé, senza per forza obbligare il lettore ad impegnarsi in altre ricerche. L'argomento specifico che verrà qui affrontato infatti sarà quello del quarto capitolo dell'Apocalisse di Giovanni, ossia del rapimento in Spirito e della visione che consente all'autore di contemplare il trono celeste di Dio. Si tratta di soli undici versetti, ma senza dubbio densi di significati e insegnamenti, come abbiamo detto, di non immediata comprensione. Come al solito, il punto che scelgo come inizio di una nuova indagine è quello della struttura letteraria dell'opera, che offre la possibilità di ottenere un prezioso sguardo d'insieme sullo sviluppo dei discorsi, delle descrizioni e delle argomentazioni nell'opera. Così come si inizia a scalare una montagna partendo da valle (contemplandola nella sua totalità), così dovremmo avvicinarci ai vari libri biblici, con rispetto e devozione, guardandoli nella loro interezza: leggendoli integralmente e considerandoli nella loro globalità prima di approfondire determinate sezioni particolari. Nel nostro caso, in termini generali, lo schema generale dell'Apocalisse è costituito da un'introduzione e una conclusione, al cui centro stanno i seguenti cinque importanti settenari:
  1. Prologo e saluto epistolare (1:1-8)
  2. Primo settenario: le sette lettere (1:9-4:11)
  3. Secondo settenario: i sette sigilli (5:1-8:1)
  4. Terzo settenario: le sette trombe (8:2-14:5)
  5. Quarto settenario: le sette coppe (14:6-19:20)
  6. Quinto settenario: le sette visioni (19:2-22:5)
  7. Epilogo e saluto epistolare (22:6-21)
Dopo il prologo, come possiamo vedere, l'Apocalisse introduce sette lettere dettate dal Signore risorto e indirizzate a sette comunità cristiane dell'Asia minore: le chiese di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi, Filadelfia, Laodicea. Queste lettere costituiscono la parte più semplice del libro a livello letterario. Questa prima porzione di testo, viene conclusa da un'ulteriore esperienza, raccontata appunto nel quarto capitolo che sarà adesso trattato. Un'esperienza che accredita se possibile ancor di più le missive alle chiese, e che prepara agli imminenti successivi avvenimenti celesti: i sette sigilli. 

VIDI UNA PORTA APERTA NEL CIELO 

Dopo queste cose vidi una porta aperta nel cielo, e la prima voce, che mi aveva già parlato come uno squillo di tromba, mi disse: «Sali quassù e ti mostrerò le cose che devono avvenire in seguito». Subito fui rapito dallo Spirito. Ed ecco, un trono era posto nel cielo e sul trono c'era uno seduto. Colui che stava seduto era simile nell'aspetto alla pietra di diaspro e di sardonico; e intorno al trono c'era un arcobaleno che, a vederlo, era simile allo smeraldo. Attorno al trono c'erano ventiquattro troni su cui stavano seduti ventiquattro anziani vestiti di vesti bianche e con corone d'oro sul capo. Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni. Davanti al trono c'erano sette lampade accese, che sono i sette spiriti di Dio. Davanti al trono inoltre c'era come un mare di vetro, simile al cristallo; in mezzo al trono e intorno al trono, quattro creature viventi, piene di occhi davanti e di dietro. La prima creatura vivente era simile a un leone, la seconda simile a un vitello, la terza aveva la faccia come d'un uomo e la quarta era simile a un'aquila mentre vola. E le quattro creature viventi avevano ognuna sei ali, ed erano coperte di occhi tutt'intorno e di dentro, e non cessavano mai di ripetere giorno e notte: «Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene». Ogni volta che queste creature viventi rendono gloria, onore e grazie a colui che siede sul trono, e che vive nei secoli dei secoli, i ventiquattro anziani si prostrano davanti a colui che siede sul trono e adorano colui che vive nei secoli dei secoli e gettano le loro corone davanti al trono, dicendo: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza: perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà furono create ed esistono».
Apocalisse 4:1-11  

Come apprendiamo leggendo i capitoli precedenti, Giovanni era nell'isola di Patmos a motivo della parola di Dio e della testimonianza di Gesù (1:9). Qui, nel giorno del Signore viene preso in spirito (1:10), esperienza che lo porta ad avere una visione di Gesù risorto e glorificato3 che gli detta le sette missive iniziali. Conclusa questa attività, Giovanni vede una porta nel cielo, sente una voce che lo invita ad entrare e, ancora una volta, viene ad essere letteralmente in spirito. La nostra prima riflessione si sofferma proprio su tale espressione, che può essere tradotta ed intesa in modi diversi. Per l'assenza di articolo nel testo originale infatti, è improbabile che la formula sia da intendere letteralmente con "nello Spirito Santo", come comunemente affermato.4 Di conseguenza si aprono diverse possibilità, ma una soluzione che tenga conto tanto del testo grammaticale quanto del contesto teologico può identificare il suo significato con lo "spirito profetico", quello che in 19:10 è chiamato "spirito della profezia" e in 22:6, al plurale, "spirito dei profeti".5 È grazie allo Spirito dei profeti (lo Spirito di Dio, dato ai profeti) che Giovanni può osservare ciò che è oltre la porta celeste, e tentare di descrivere quello che per sua stessa natura è ineffabile (cfr. 2 Cor. 12:4). La ripetizione in 1:10 e 4:2 può indicare diverse profondità dell'essere nello spirito profetico, due momenti successivi e progressivi della stessa esperienza spirituale.6 La porta è da immaginare grandiosa, monumentale, perché è la porta del mondo divino; e il suo essere aperta è al tempo stesso invito ad entrare (subito dopo confermato dalla voce) e promessa.7 La voce infine, è senza dubbio la stessa del primo capitolo, quella che introdusse Giovanni alla visione del Figlio dell'uomo in mezzo ai sette candelabri. In questo quadro generale, si entra ora nel vivo dell'esperienza celeste. 

Sardonico
Diaspro rosso
La descrizione dell'indescrivibile si sofferma prima di tutto su un trono nel cielo, e sul suo occupante. Non viene rivelato da subito il suo nome, ma viene assomigliato alla pietra di diaspro e sardonico. Intorno al trono invece, Giovanni vede un arcobaleno simile allo smeraldo. Come il trono è simbolo di dominio sulla storia umana, così la somiglianza con le pietre preziose rimanda alla muta e misteriosa bellezza della natura.8 Nel mondo antico il cosmo superiore era spesso rappresentato con pietre preziose9: nel dialogo platonico del Fedone (IV sec. a.C.) troviamo infatti - per esempio - un confronto tra le parti superiori del cosmo con quelle inferiori, e l'affermazione che in quelle superiori si trovano allo stato puro proprio il diaspro, il sardio e lo smeraldo.10 Nell'Antico Testamento, se da un lato si polemizza contro il culto delle stele di pietra, dall'altro si esige che l'altare venga eretto con pietre non squadrate da mano umana, e che si innalzino pietre dove Dio si è manifestato.11 Le pietre quindi - specialmente quelle preziose - sono di conseguenza per Giovanni la scelta più naturale per alludere all'aspetto di Dio. Attorno al trono, vengono ora presentati altri ventiquattro troni su cui stavano seduti ventiquattro anziani vestiti di vesti bianche e con corone d'oro sul capo. Per cercare di comprendere meglio questa corte divina abbiamo i seguenti indizi: il numero ventiquattro, il termine "presbyteros", e l'atto di stare assisi su un trono vestiti di vesti bianche e indossando delle corone d'oro. Prima di tutto, il numero ventiquattro si presta a diversi significati: le ventiquattro classi sacerdotali dei cantori del Tempio (1 Cr. 24:4-19), il numero dei profeti di Israele (cfr. il libro apocrifo dell'Apocalisse di Esdra) ma, soprattutto, i dodici patriarchi dell'Antico Testamento sommati ai dodici apostoli di Gesù. Rilevando il successivo utilizzo di patriarchi e apostoli in 21:12-14 infatti, la soluzione più verosimile sembra proprio quest'ultima, simboleggiante in tal modo la storia intera intorno al trono di Dio, Signore della storia.12 Il termine anziani, di conseguenza riguardarderebbe questi due importantissimi gruppi di uomini di Dio, che qui svolgono il ruolo di dignitari che fanno da decoro a un sovrano, presenziando e prendendo parte agli encomi cantati e alle prostrazioni del rutuale di corte.13 Anche se una traduzione corretta potrebbe essere anziani/presbiteri, il significato è comunque diverso dal titolo dei responsabili delle comunità cristiane che troviamo altrove nel Nuovo Testamento.14 Come stiamo per vedere, le loro azioni sono anzitutto liturgiche: si prostrano davanti al sovrano che siede sul trono, gettano le loro corone ai suoi piedi per omaggiarlo, e nel capitolo seguente suonano l'arpa e offrono profumi intonando cantici. Oltre a questo però, alcuni di loro svolgono anche l'incarico di interpretare gli eventi rivelandone il significato, come in 5:5 e in 7:13-17. Infine, l'essere assisi su un trono nonostante si trovino in presenza di Dio e le corone che portano in capo non possono che mostrare la loro piena partecipazione al regno di Dio, di cui parlerà la pagina finale del libro (22:5, regneranno nei secoli dei secoli). 

Successivamente, la descrizione torna al trono di Dio, dal quale escono lampi, voci e tuoni. Essi compaiono anche in 8:5 (con l'aggiunta di un terremoto), in 11:19 e in 16:18-21 (con terremoto e grandine). Essendo messi in relazione con il trono divino, questi sono elementi associati alla manifestazione di Dio, sono il segno della presenza e della parola di Dio.15 Possiamo vedere a titolo di esempio altre ricorrenze veterotestamentarie legate alla teofania:

Esodo 19:16 Il terzo giorno, come fu mattino, ci furono tuoni, lampi, una fitta nuvola sul monte e si udì un fortissimo suono di tromba. Tutto il popolo che era nell'accampamento tremò.

Esodo 20:18 Or tutto il popolo udiva i tuoni, il suono della tromba e vedeva i lampi e il monte fumante. A tal vista, tremava e stava lontano.


O SIGNORE, quando uscisti dal Seir,
quando venisti dai campi di Edom,
la terra tremò, e anche i cieli si sciolsero,
anche le nubi si sciolsero in acqua.
I monti furono scossi per la presenza del SIGNORE,
anche il Sinai, là, fu scosso davanti al SIGNORE, al Dio d'Israele!
 

Giudici 5:4-5 

Salmo 77:18 Il fragore dei tuoni era nel turbine;
i lampi illuminarono il mondo;
la terra fu scossa e tremò. 
 
 
 

 
Si ha quindi certamente a che fare con la manifestazione della presenza di Dio, che nel nostro caso presenta davanti a sé sette lampade accese, che il testo interpreta subito dopo come i sette spiriti di Dio. Essi venivano descritti già in 1:4 e verrà svelato in 5:6 che sono anche i sette occhi dell'Agnello. Il fuoco delle fiaccole parla dell'azione divina, gli occhi parlano dell'onniscienza, entrambi legati al numero sette, il numero biblico per eccellenza perfetto, completo e definitivo.16 A questo riguardo, un precedente biblico possiamo trovarlo nel libro del profeta Isaia a riguardo del messia di Dio:

Lo Spirito del SIGNORE riposerà su di lui:
Spirito di saggezza e d'intelligenza,
Spirito di consiglio e di forza,
Spirito di conoscenza e di timore del SIGNORE.

Isaia 11:2


Davanti al trono poi, c'è anche un mare, di vetro simile al cristallo perché purificato dalla vicinanza del trono di Dio. In genere esso rappresenta la moltitudine dei popoli (cfr. 13:1), ma la sua vetrificazione simboleggia appunto la vittoria di Dio sulla ribellione e sulla forza del male (cfr. 15:2). Alla fine del libro, con la nuova creazione viene tuttavia detto esplicitamente che il mare non ci sarà più (cfr. 21:1b). In questo contesto non può che mostrare il dominio di Dio non solo sulla storia della salvezza, ma anche sulla storia dei popoli e dei ribelli. In mezzo e intorno al trono, quindi più vicini ad esso degli anziani precedentemente descritti, Giovanni vede invece quattro Viventi, pieni di occhi davanti e dietro. Queste creature sono simili a un leone, un vitello, un uomo e un'aquila, ciascuno con sei ali e pieni di occhi. Su questo tema, ci sono due brani dell'Antico Testamento molto importanti che dobbiamo considerare, ossia quelli delle vocazioni dei profeti Isaia ed Ezechiele:

Io guardai, ed ecco venire dal settentrione un vento tempestoso, una grossa nuvola con un fuoco folgorante e uno splendore intorno a essa; nel centro vi era come un bagliore di metallo in mezzo al fuoco. Nel centro appariva la forma di quattro esseri viventi; e questo era l'aspetto loro: avevano aspetto umano. Ognuno di essi aveva quattro facce e quattro ali. I loro piedi erano diritti, e la pianta dei loro piedi era come la pianta del piede di un vitello; e brillavano come il bagliore del bronzo lucente. Avevano mani d'uomo sotto le ali, ai loro quattro lati; tutti e quattro avevano le loro facce e le loro ali. Le loro ali si univano l'una all'altra; camminando, non si voltavano; ognuno camminava diritto davanti a sé. Quanto all'aspetto delle loro facce, essi avevano tutti una faccia d'uomo, tutti e quattro una faccia di leone a destra, tutti e quattro una faccia di bue a sinistra, e tutti e quattro una faccia d'aquila. Le loro facce e le loro ali erano separate nella parte superiore; ognuno aveva due ali che s'univano a quelle dell'altro, e due che coprivano loro il corpo.  
Ezechiele 1:4-11

In questo primo capitolo, il profeta Ezechiele descrive le circostanze della sua chiamata al ministero profetico. Egli era in esilio presso il fiume Chebar, e ad un certo punto inizia ad avere una visione divina. La prima cosa che vede è proprio una nuvola con un fuoco folgorante al cui centro vi è la forma di quattro esseri viventi successivamente descritti, e che in un secondo momento il profeta identificherà come cherubini (cfr. c.10). Come possiamo vedere, ci sono numerose somiglianze con il testo dell'Apocalisse, ma anche alcune differenze. In modo simile, essi sono chiamati Viventi, sono in numero di quattro, sono pieni di occhi (cfr. Ez. 1:18), hanno le stesse fattezze (uomo, leone, bue/vitello, aquila) e hanno delle ali. Differentemente però varia il numero di ali e la collocazione degli occhi, le quattro fattezze non sono contemporaneamente in ciascuno dei quattro Viventi ma ognuno ne ha una sola, ed infine in Ap. essi non hanno il compito di muovere i carro divino (come in Ez.) ma quello di essere assistenti al trono di Dio e di cantare a lui incessantemente. Esaminiamo ora invece alcuni versetti relativi alla chiamata profetica di Isaia:

Nell'anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava. L'uno gridava all'altro e diceva: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo.
Isaia 6:1-4

Anche in questo caso troviamo importanti punti di contatto e qualche divergenza. Da un lato, infatti, gli esseri angelici sono ugualmente collegati con il trono di Dio, hanno lo stesso numero di ali di quelli visti da Giovanni (sei), e cantano tre volte la sua santità in sua presenza. Dall'altra però in Ap. non si parla di serafini ma di "esseri viventi", non si descrive la funzione delle ali e il loro canto non si completa con la proclamazione della gloria universale di Dio. Rielaborando queste caratteristiche, possiamo adesso tentare di dare loro un significato più chiaro. Gli occhi dei viventi servono probabilmente per conoscere in ogni direzione e le ali per essere agili nei movimenti. Il leone è universalmente ritenuto il più forte degli animali, e quindi rappresenta la forza nel mondo della natura. Il vitello/bue invece è il più forte tra gli animali domestici, con lui è la forza per il lavoro. L'uomo è l'essere più nobile e intelligente, come apprendiamo sin dalla Genesi ed è immagine di queste caratteristiche. Infine l'aquila è l'uccello più veloce e forte, e dalla vista più acuta. Insieme, le fattezze di questi viventi rivelano la loro supremazia in ogni sfera naturale: dalla foresta selvatica (leone), all'ambiente domestico (vitello, uomo) al cielo (aquila).17 L'essere umano non è al vertice ma al centro, perché al vertice ci sia il cielo, l'abitazione di Dio.18 Senza azzardare la definizione di una categoria angelica quindi (il testo la omette), possiamo comprendere che questi esseri viventi possiedono la più grande comprensione, forza, e velocità nel regno celeste e possono così rappresentare l'intero cosmo. Davanti al trono di Dio perciò, tanto l'intera storia del suo popolo (Israele e la Chiesa) quanto l'intero creato (dalla foresta al cielo), nelle persone rispettivamente dei ventiquattro anziani e dei quattro esseri viventi, rendono omaggio alla sua sovranità in eterno. In questa liturgia celeste, i viventi continuano a ripetere, giorno e notte: «Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene». La triplice proclamazione della santità di Dio è espressione del mistero divino, la sintesi ineffabile di integrità, perfezione, splendore, incorruttibilità e potenza.19 Come abbiamo visto, ha un parallelo proprio con le parole dei serafini, che Isaia vede in modo simile sopra il trono di Dio. All'estremità opposta, c'è la dichiarazione della presenza e dell'azione di Dio al passato, presente e futuro. Al centro invece, tra la proclamazione della santità e quella della presenza efficace ed eterna, è detto chi sia il santo e potente: è detto con tre titoli (il Signore, Iddio, il Pantokrator) o, più probabilmente con due titoli (il Signore Iddio, il Pantokrator).20 Dio è tre volte santo, è kyrios universale, è colui che tutto detiene e tutto può (pantokrator) ed è infine colui che tutto è e tutto opera, in ogni coordinata del tempo e nell'eternità.21 Nel Nuovo Testamento, il termine pantokrator (onnipotente) è utilizzato quasi esclusivamente nell'Apocalisse di Giovanni (9 volte), con l'unica eccezione di una ricorrenza nella Seconda Lettera ai Corinzi:

E che armonia c'è fra il tempio di Dio e gli idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come disse Dio:
«Abiterò e camminerò in mezzo a loro, sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Perciò, uscite di mezzo a loro
e separatevene, dice il Signore,
e non toccate nulla d'impuro;
e io vi accoglierò.
E sarò per voi come un padre
e voi sarete come figli e figlie»,
dice il Signore onnipotente

2Corinzi 6:16-18

Anche qui, l'onnipotenza di Dio è strettamente legata al titolo di Signore e alla sua santità (non toccate nulla d'impuro, e io vi accoglierò): tre aspetti fortemente connessi tra di loro. Dio è Signore, è Onnipotente, ed è Santo, tre attributi inscindibili che mostrano degli aspetti della natura stessa di Dio. Torniamo però ora al nostro testo, per considerare le sue battute finali. Ogni volta che i viventi compiono la loro proclamazione, i ventiquattro anziani si prostrano in adorazione, gettano le loro corone davanti al trono e si uniscono nella lode con un'altra esclamazione: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza: perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà furono create ed esistono». Lo studioso Biguzzi nota le difficoltà testuali di questa frase, e motiva la possibilità di intenderla come affermazione dell'esistenza dall'eternità delle creature già nella volontà divina, esistenza che precede l'atto stesso della creazione.22 La volontà di Dio di esprimersi nella creazione, e successivamente la sua azione nel portarla all'esistenza, è quindi pieno motivo di gloria, onore e potenza, e non può di certo essere diversamente da così.  

CONCLUSIONE 

Il quarto capitolo dell'Apocalisse termina interrompendo apparentemente una liturgia che in realtà continuerà in chiave cristologica in 5:8, per poi spegnersi in 5:13-14, in cui Dio e l'Agnello ricevono congiuntamente l'omaggio e la lode di tutte le creature.23 Grazie a questo capitolo, possiamo crescere nella comprensione non solo delle indicazioni del Signore (presenti nei capitoli precedenti), ma anche nei suoi attributi, in alcuni aspetti della sua natura e nella sua sovranità sulla creazione e sull'umanità. Da questo punto in poi inizia la descrizione di quello che deve avvenire in seguito, un inestimabile incoraggiamento per la Chiesa, che alimenta la fede dei credenti come solo la Parola di Dio può fare. Questo testo inoltre testimonia incontrovertibilmente dell'unità dell'Antico Testamento con il Nuovo e di come i vari libri biblici descrivono diverse tappe per la salvezza dell'uomo predisposte e promosse dallo stesso eterno Dio - come si vedrà nel quinto capitolo - e dall'Agnello che siede sul trono. Nel corso della storia del cristianesimo, l'Apocalisse ha incontrato numerose difficoltà di comprensione, ma lo sforzo del credente deve essere quello di impegnarsi per poter ricevere l'intero consiglio di Dio e non solo una parte determinata dai propri libri biblici preferiti. Se l'indicazione del libro di Daniele è di sigillare il libro (Dn. 12:4), quella dell'Apocalisse di Giovanni è diametralmente opposta:

Poi mi disse: «Non sigillare le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino. Chi è ingiusto continui a praticare l'ingiustizia; chi è impuro continui a essere impuro; e chi è giusto continui a praticare la giustizia, e chi è santo si santifichi ancora».
Apocalisse 22:10-11

Il tempo è vicino, il Signore della storia sta per tornare: chi è giusto deve continuare a praticare la giustizia e chi è santo deve santificarsi ancora, per la sola gloria di Dio.



Note:

[1] Cfr. Josep-Oriol Tunì, Xavier Alegre, Scritti giovannei e lettere cattoliche (1997), Paideia, p. 178.
[2] Id. Ibid. p. 179.
[3] Cfr. Giancarlo Biguzzi, Apocalisse (2005), Paoline, p. 84. 
[4] Id. Ibid. p. 81.
[5] Id. Ibid.  
[6] Cfr. Daniele Tripaldi, Apocalisse di Giovanni (2012), Carocci editore, p. 133.
[7] Cfr. G. Biguzzi, Apocalisse (2005), Paoline, p. 138.
[8] Id. Ibid.
[9] Cfr. Daniele Tripaldi, Apocalisse di Giovanni (2012), Carocci editore, p. 133.
[10] Cfr. G. Biguzzi, Apocalisse (2005), Paoline, p. 139.
[11] Id. Ibid. 
[12] Id. Ibid. p. 141.
[13] Id. Ibid. p. 140.
[14] Id. Ibid. 
[15] Id. Ibid. p. 142.
[16] Id. Ibid.
[17] Id. Ibid. p. 144.
[18] Id. Ibid.
[19] Id. Ibid.
[20] Id. Ibid. p. 145. 
[21] Id. Ibid
[22] Id. Ibid.
[23] Id. Ibid. p. 146.  
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