martedì 21 aprile 2015
L'amore di Dio, sparso nei nostri cuori
Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio; non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza. Or la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.
Romani 5:1-5
I primi anni del cristianesimo sono stati anni di tensione, nei quali portare a maturità la comprensione degli insegnamenti di Cristo e la loro applicazione nelle molte questioni che sorgevano all'interno delle chiese, soprattutto nel problema che sorgeva tra la comunione dei credenti di origine ebraica con quelli di origine gentile, ma anche tra i credenti di entrambe le estrazioni con i giudei che ancora non riconoscevano Gesù come Messia. Dio si era rivelato prima di tutto al popolo ebraico, ed in un primo momento non era chiara la relazione tra questa "primogenitura" e il popolo credente che stava nascendo al di fuori di questa grande famiglia abramitica. La lettera che Paolo scrisse alla comunità cristiana di Roma affronta in modo completo proprio questi temi, e lo fa dall'inizio, chiarendo immediatamente che tutti, Giudei e Greci, sono ugualmente sottoposti al peccato, ma entrambi sono anche giustificati gratuitamente per la grazia di Dio mediante la redenzione in Cristo Gesù. Per tutto il genere umano quindi, vi è un'unica strada per la salvezza eterna, rappresentata non dalla legge di Mosè ma piuttosto dalla grazia di Dio mediante la redenzione in Gesù Cristo.
Nell'argomentazione dell'apostolo, tutta questa esposizione si appoggia su un punto particolare che troviamo al quarto capitolo: «Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia». Questa citazione del libro di Genesi (15:6) rappresenta infatti una vera e propria prova del fatto che anche nel tempo dell'antico patto la fede era sufficiente agli occhi di Dio per essere accreditata come giustizia. Il termine tradotto con messo in conto, nell'originale greco è riportato con il verbo logizomai, ed esprime proprio quel paradosso esistente tra l'atto interiore di credere e la computazione matematica di questo atto come giustizia personale. Abraamo credette e questo gli fu calcolato come giustizia. Ma allo stesso modo anche noi, sia che siamo di etnia ebraica o meno, possiamo credere, e questa nostra fede può essere a noi computata come atto come giustizia. Questa meravigliosa realtà spirituale è stata un fondamento della riforma protestante, e della relativa dottrina della giustificazione.
Avendo assodato questa salvezza comune disponibile mediante la fede, a questo punto l'apostolo Paolo sposta l'attenzione alle conseguenze di questo verdetto giuridico: per questo motivo, infatti, noi ora abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo. Questo è il cuore del Vangelo, questo è il motivo per cui ogni singolo credente ha potuto essere riconciliato con il Padre e ricevere il suo amore. Nei primi cinque versetti dei quinto capitolo della lettera, vengono descritte la pace e l'amore di Dio Padre, rese accessibili mediante Dio Figlio, grazie a Dio Spirito Santo. In due sole frasi, appaiono con splendida chiarezza l'armonia e la cooperazione delle persone della divinità nella manifestazione della salvezza del genere umano. Lo Spirito Santo sparge nei nostri cuori l'amore di Dio, lo stesso amore che ha portato il Figlio a morire sulla croce al posto dell'umanità, caricandosi dei nostri peccati e delle nostre iniquità (Is 53). E' un disegno perfetto, un amore condiviso, un proposito comune, quello che ha portato il Dio biblico all'azione per la salvezza dell'uomo. In questa grazia, possiamo gloriarci persino delle afflizioni, sapendo che sono ben poca cosa rispetto al futuro peso eterno di gloria (2 Co 4:17). Ogni afflizione infatti produce pazienza, la pazienza esperienza e l'esperienza speranza. Ogni afflizione accresce l'essere interiore e spirituale, fortificandoci e rendendoci sempre più simili a Cristo. Ogni afflizione ci unisce alle afflizioni che ha vissuto Cristo, unendoci però anche alla potenza della sua resurrezione. Per questo motivo, niente e nessuno può separarci dall'amore di Dio (Ro 8). Tanto la sofferenza quanto la gioia, nelle mani del Signore sono utilizzate per la crescita dei suoi figli, per la loro maturazione e per il loro avvicinamento al suo cuore. Nulla può separarci dall'amore di Dio, perché questo amore permea il creato e regna sovrano sopra ogni luogo, età e circostanza. E' un governo invisibile, spesso nascosto, e a volte compreso solo molto tempo dopo i singoli avvenimenti delle nostre vite. E' un governo che prende il disordine e la distruzione nati dai peccati dell'uomo e li lavora per convertirli in ordine e crescita nella vita delle persone. E' un governo soprannaturale, che agisce a volte in modo istantaneo, a volte in modo lento e progressivo. Per quanto poco possiamo capire di questo governo però, lo avvertiamo in modo sensibile nei nostri stessi cuori, attraverso lo Spirito Santo. Un amore reale, tangibile, presente. Un amore che ci parla della presenza di Dio, conducendoci fuori dalle nostre paure per afferrare il destino che il Signore ha pensato per noi. Un amore che copre e perdona molti peccati, un amore che ci spinge ad amare le altre persone, anche quelle meno amabili. Un amore che non ha fine e che desidera ripristinare la nostra identità di figli, e riscattare la nostra immagine, come immagine del Padre.
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domenica 19 aprile 2015
Il nuovo nome dei servi di Dio
1.INTRODUZIONE
Genesi 2:19,20a
Genesi 1:28 Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra».
Nel libro della Genesi, leggiamo che il Signore dopo aver creato tutti gli animali li condusse all'uomo affinché ricevessero un nome direttamente da Adamo. Per la nostra cultura, tutto questo può avere un significato di poca rilevanza, ma nel pensiero ebraico le cose sono molto diverse. Il senso di questo racconto infatti valorizza una concezione in cui il nome esprime l'essenza stessa delle cose1, e il trovare un nome sigilla la superiorità dell'uomo su tutto il bestiame, gli uccelli del cielo e ogni animale dei campi. Lo scopo del Creatore infatti è stato quello di rendere soggetti gli animali all'essere umano, e proprio per ufficializzare questo ordine naturale il Signore condusse l'uomo come sua stessa immagine a trovare un nome per ogni essere vivente. Successivamente la narrazione biblica prosegue, e ci fa incontrare la disubbidienza di Adamo ed Eva e il loro allontanamento dal giardino di Eden. Questa caduta dallo stato spirituale originario ha provocato la corruzione totale dell'umanità, diventata incapace di credere e amare Dio senza una rigenerazione ad opera dello Spirito Santo.
In questa situazione di peccato, il Signore nella storia biblica ha chiamato varie persone per stabilire delle alleanze e provvedere ad un nuovo piano di salvezza. Ogni incontro personale, però, è stato contraddistinto dal ricevimento di un nuovo nome da parte di Dio, un nuovo nome per un nuovo destino, una nuova benedizione, una nuova vita.
Quando Abramo ebbe novantanove anni, il SIGNORE gli apparve e gli disse: «Io sono il Dio onnipotente; cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente». Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e Dio gli parlò, dicendo: «Quanto a me, ecco il patto che faccio con te; tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni; non sarai più chiamato Abramo, ma il tuo nome sarà Abraamo, poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni. Ti farò moltiplicare grandemente, ti farò divenire nazioni e da te usciranno dei re. Stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto eterno per il quale io sarò il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. A te e alla tua discendenza dopo di te darò il paese dove abiti come straniero: tutto il paese di Canaan, in possesso perenne; e sarò loro Dio».
Genesi 17:1-8
A partire dal dodicesimo capitolo della Genesi, si dispiega la storia del patriarca Abramo e della sua chiamata da parte di Dio. Dopo numerose promesse e avvenimenti, nel sedicesimo capitolo troviamo le circostanze che hanno portato Abramo ad unirsi con Agar la serva di sua moglie Sarai, nella speranza di vedere finalmente la discendenza che il Signore gli aveva promesso. L'età avanzata di Abramo e di Sarai costituiva un ostacolo insormontabile per la nascita di un figlio, e questo escamotage in voga nell'antico Vicino Oriente sembrava l'unica possibilità di vedere sorgere questa nuova generazione. Abramo diventò padre di Ismaele a ottantasei anni, e tredici anni dopo, quando ebbe novantanove anni, il Signore tornò ad Abramo per dargli un nuovo nome; ufficializzando in questo modo tutte le promesse che gli aveva rivolto. Perché aspettare tredici anni esatti?
Però non è che la parola di Dio sia caduta a terra; infatti non tutti i discendenti d'Israele sono Israele; né per il fatto di essere stirpe d'Abraamo, sono tutti figli d'Abraamo; anzi: «È in Isacco che ti sarà riconosciuta una discendenza». Cioè, non i figli della carne sono figli di Dio; ma i figli della promessa sono considerati come discendenza. Infatti, questa è la parola della promessa: «In questo tempo verrò, e Sara avrà un figlio».
Romani 9:6-9
L'apostolo Paolo ci aiuta nella comprensione di questo episodio, insegnando che solo i figli della promessa sono considerati come discendenza e quindi solo Isacco e non Ismaele, nato da Agar. Quest'ultimo infatti nacque a causa dell'incredulità di Abramo e Sarai, e per questo motivo è considerato come figlio della carne e non come figlio di Dio, nonostante successivamente il Signore lo abbia ugualmente benedetto. Nel secondo millennio, si è man mano consolidata la convenzione ebraica del raggiungimento della maturità per i ragazzi al tredicesimo anno di età. A partire dal medioevo questa pratica si è sviluppata nel moderno bar mitzvah, ossia nella festa della comunità ebraica che accoglie il nuovo membro a pieno titolo. Esistono però anche molte altre testimonianze precedenti che identificano nei tredici anni il tempo della maggiore età, e molti antichi commenti (midrash) alla Torah che esplicitano questo pensiero. Per gli ebrei, a partire dai tredici anni i ragazzi sono obbligati a seguire i comandamenti e sono ritenuti moralmente responsabili per le proprie azioni. Possiamo quindi interpretare questa attesa di tredici anni da parte del Signore, prima di rivolgersi nuovamente ad Abramo, come espressione della sua volontà di aspettare la maggiore età di Ismaele: aspettare che Abramo terminasse di avere la responsabilità delle sue azioni per poterlo investire di un nuovo nome, una nuova identità, e un particolare futuro. Se Abramo significa "egli ama il Padre [Dio]"2 infatti, Abraamo significa invece "padre di molte nazioni"3, e questo cambiamento evidenzia proprio il passaggio tra il suo originario amore per Dio e la maturazione della promessa che Dio gli aveva fatto, promessa non ancora mantenuta e per la quale Abramo aveva cercato di trovare una scorciatoia. La sua incredulità a partire da questo momento sarà lasciata alle spalle, perché da questo momento in poi Abramo non avrebbe soltanto amato il Signore ma avrebbe portato nel suo proprio nome la promessa di diventare padre di molte nazioni.
Genesi 17:15 Dio disse ad Abraamo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara.
Sempre lo stesso anno, la moglie ricevette da Dio come nuovo nome "Sara" e il suo significato è potuto cambiare da "mia principessa" a "principessa"4. Se prima Sara era la principessa di Abramo, ora potrà essere principessa per tutta la sua discendenza, per tutti i re e principi che nasceranno in seguito da questa dinastia. Solo lasciando alle spalle l'incredulità passata, Abramo e Sara sono potuti entrare nella nuova funzione della loro chiamata, avvicinandosi alla realizzazione della promessa di Dio ratificando proprio in questo stesso periodo il patto con il Signore attraverso la circoncisione di Abraamo e di tutti gli uomini della sua casa.
3.DA GIACOBBE A ISRAELE
Genesi 32:24-30
Giacobbe rimase solo e un uomo lottò
con lui fino all'apparire dell'alba; quando quest'uomo vide che non
poteva vincerlo, gli toccò la giuntura dell'anca, e la giuntura
dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. E
l'uomo disse: «Lasciami andare, perché spunta l'alba». E Giacobbe: «Non
ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!» L'altro gli disse:
«Qual è il tuo nome?» Ed egli rispose: «Giacobbe». Quello disse: «Il tuo
nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e
con gli uomini e hai vinto». Giacobbe gli chiese: «Ti prego, svelami il
tuo nome». Quello rispose: «Perché chiedi il mio nome?» E lo benedisse
lì. Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, perché disse: «Ho visto Dio
faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata».
Dopo essersi allontanato dal suocero Labano con tutta la sua famiglia, Giacobbe (nipote di Abraamo) dovette passare per il territorio di Esaù: il fratello dal quale aveva preso la benedizione della primogenitura con l'inganno. Erano passati più di vent'anni dall'ultima volta che lo aveva visto e fu preso da gran paura e angoscia, temendo che potesse fargli guerra con tutti i suoi uomini. Proprio alla vigilia dell'incontro, quella stessa notte, egli fece la particolare esperienza descritta in questo testo. Lottò con un uomo fino all'alba, ma non era un uomo qualsiasi: era l'angelo del Signore, Dio stesso. Giacobbe probabilmente sospettava la natura soprannaturale della persona e per questo motivo chiese con insistenza di essere benedetto, e questa benedizione è arrivata proprio sotto forma di un nuovo nome. Il nome Giacobbe significa "ingannare"5, ed era tutto sommato un nome azzeccato, un nome che rispecchiava le sue azioni. Egli aveva ingannato suo fratello e suo padre per ottenere la primogenitura, e nonostante lo avesse fatto per un desiderio importante, in questo tempo stava per raccogliere i frutti dei suoi inganni, rivedendosi con Esaù. Come per Abramo, anche per Giacobbe la benedizione del nuovo nome è arrivata nel momento più opportuno, nel momento che ha potuto fare la differenza tra la vita precedente e il destino successivo. Infatti Giacobbe riceve come nuovo nome "Israele", che significa "colui che lotta con Dio"6; se prima la sua esistenza era stata contrassegnata dall'imbroglio, da questo momento in avanti è contraddistinta dal suo incontro con Dio e dal suo intenso desiderio di essere benedetto personalmente e non solo in quanto figlio della promessa ricevuta da suo nonno. Fino a questo trentaduesimo capitolo infatti, ogni sua invocazione era riferita al "Dio di Abramo e di Isacco" (Ge 32:9), mentre da questo momento in poi si riferirà al Signore come al Dio che lo aveva esaudito (35:3). Questa differenza è enorme. Vivere con la fede nel Dio dei propri genitori infatti è completamente diverso dal vivere con la fede nel proprio Dio. Quando l'esperienza è personale, tutta cambia definitivamente. Da questo momento in poi, Giacobbe venne chiamato Israele. Da questo momento in poi, il suo nome poté testimoniare della sua lotta con Dio e con gli uomini, e della sua vittoria: la sua benedizione.
4.LA DEPORTAZIONE: DA DANIELE A BALTAZZAR
Dal momento in cui il Signore è intervenuto stringendo l'alleanza con Abramo e con la sua discendenza suggellando questo patto con un nuovo nome, non sono mancati episodi in cui gli avversari di Israele hanno fatto la stessa cosa. Possiamo vedere velocemente un esempio biblico, solo per capire che questo stesso principio spirituale, come molti altri, viene usato anche da Satana per cercare di provocare distruzione e pervertire le identità degli uomini.
Il terzo anno del regno di Ioiachim re di Giuda, Nabucodonosor, re di Babilonia, marciò contro Gerusalemme e l'assediò. Il Signore gli diede nelle mani Ioiachim, re di Giuda, e una parte degli arredi della casa di Dio. Nabucodonosor portò gli arredi nel paese di Scinear, nella casa del suo dio, e li mise nella casa del tesoro del suo dio. Il re disse ad Aspenaz, capo dei suoi eunuchi, di condurgli dei figli d'Israele, di stirpe reale o di famiglie nobili. Dovevano essere ragazzi senza difetti fisici, di bell'aspetto, dotati di ogni saggezza, istruiti e intelligenti, capaci di stare nel palazzo reale per apprendere la scrittura e la lingua dei Caldei. Il re assegnò loro una razione giornaliera dei cibi della sua tavola e dei vini che egli beveva; e ordinò di istruirli per tre anni dopo i quali sarebbero passati al servizio del re. Tra di loro c'erano dei figli di Giuda: Daniele, Anania, Misael e Azaria; il capo degli eunuchi diede loro altri nomi: a Daniele pose nome Baltazzar; ad Anania, Sadrac; a Misael, Mesac e ad Azaria Abed-Nego.
Daniele 1:1-7
Il nome Daniele significa "Dio è il mio giudice"7, mentre Baltazzar significa invece "Bel protegga il re"8, laddove Bel identificava la divinità di Marduk, protettrice dell'antica babilonia9. Il nobile Daniele dunque, essendo stato deportato a Babilonia, ha dovuto subire il cambiamento del proprio nome, venendo chiamato con un nome nuovo che conteneva in sé l'allusione ad un idolo. Questo cambiamento aveva proprio lo scopo di disegnare sui deportati una nuova identità affine al regno Babilonese, cercando di far rinnegare le loro origini. Come sappiamo leggendo il libro del profeta Daniele, egli riuscì invece a mantenersi integro davanti a Dio, acquisendo sempre maggiore prestigio proprio grazie alla provvidenza e alla grazia del Signore.
5.LA PROMESSA ESCATOLOGICA
Perciò, così parla il Signore, DIO:
Più di un secolo prima degli avvenimenti di Daniele, ossia intorno al 740 a.C., il profeta Isaia iniziava il proprio ministero nel regno di Giuda, a Gerusalemme. Il suo libro è citato moltissimo nel Nuovo Testamento e i suoi oracoli hanno scandito gli avvenimenti storici della sua generazione, proiettando però lo sguardo verso gli ultimi tempi. Quattro suoi magnifici canti descrivono il "servo di YHWH", preannunciando l'incarnazione e il ministero terreno di Gesù Cristo. Tra le tante profezie di questo importante uomo di Dio però, ce n'è una che appare di particolare rilevanza per il nostro tema. Al capitolo sessantacinque infatti possiamo leggere:
«Ecco, i miei servi mangeranno, ma voi avrete fame;
ecco, i miei servi berranno, ma voi avrete sete;
ecco, i miei servi gioiranno, ma voi sarete delusi;
ecco, i miei servi canteranno per la gioia del loro cuore,
ma voi griderete per l'angoscia del cuor vostro
e urlerete perché avrete lo spirito affranto.
Lascerete il vostro nome come una imprecazione fra i miei eletti:
"Il Signore, DIO, ti faccia morire!"
Ma egli darà ai suoi servi un altro nome,
in modo che chi si augurerà di essere benedetto nel paese,
lo farà per il Dio di verità,
e colui che giurerà nel paese,
lo farà per il Dio di verità;
perché le afflizioni di prima saranno dimenticate,
saranno nascoste ai miei occhi.
Poiché, ecco, io creo nuovi cieli
e una nuova terra;
non ci si ricorderà più delle cose di prima;
esse non torneranno più in memoria.
Isaia 65:13-17
Nel tempo della fine il Signore caccerà i ribelli, ma proteggerà i suoi servi. Essi riceveranno un nuovo nome, un nome più consono alla loro nuova dignità nella nuova creazione. Nel momento della resurrezione e della piena manifestazione del regno di Dio, i suoi eletti riceveranno questo nome assieme al corpo di resurrezione per vivere l'eternità con il Signore, dimenticando le cose di prima. L'Apocalisse di Giovanni descrive questi stessi avvenimenti scanditi nel regno millenario di Cristo e successivamente nei nuovi cieli e nella nuova terra.
Anche in questo caso, l'indicazione di un nuovo nome non è casuale, ma è una profezia che conferma l'importanza dei nomi agli occhi di Dio, e la sua volontà di benedire i suoi figli proprio a partire dal nome dato. Come Abraamo e Israele, anche tutti gli altri credenti riceveranno nel tempo escatologico un nome nuovo. In questo brano di Isaia, i confini tra ebrei e gentili si dissolvono, finché agli occhi del Signore appaiono soltanto i salvati e ribelli. Questa infatti sarà l'unica distinzione tra i popoli dell'umanità, quando vi sarà un unico ovile ed un unico pastore (Gv 10:16). Un ovile riscattato dalla disubbidienza originaria e affrancato ad un nuovo destino, grazie ad un nuovo nome.
6.GLI APOSTOLI PIU' VICINI A GESU'
Poi
Gesù salì sul monte e chiamò a sé quelli che egli volle, ed essi
andarono da lui. Ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a
predicare con il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i dodici,
cioè: Simone, al quale mise nome Pietro; Giacomo, figlio di Zebedeo e
Giovanni, fratello di Giacomo, ai quali pose nome Boanerges, che vuol
dire figli del tuono; Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso,
Giacomo, figlio di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariot,
quello che poi lo tradì.
Marco 3:13-19 
Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e li condusse soli, in disparte, sopra un alto monte. E fu trasfigurato in loro presenza; le sue vesti divennero sfolgoranti, candidissime, di un tal candore che nessun lavandaio sulla terra può dare.
Marco 9:2,3
I vangeli testimoniano la scelta del Signore Gesù di dodici discepoli, ai quali diede anche il nome di "apostoli" (Lc 6:13). Essi poterono accompagnare Cristo nei suoi tre anni di ministero, predicazione, guarigioni miracolose e liberazioni da demòni, ricevendo essi stessi l'autorità di compiere tali operazioni (cfr. Mt 10). Gli stessi apostoli, senza il traditore Giuda, annunciarono la resurrezione del Signore e guidarono la chiesa primitiva nata a seguito di Pentecoste. Tuttavia, tra di loro soltanto tre poterono vivere una maggiore vicinanza con Gesù, vedendo per esempio un assaggio della sua gloria nell'episodio della trasfigurazione. Solo tre di loro saranno successivamente reputati come colonne della Chiesa (cfr. Gal 2:9) acquistando quindi un particolare prestigio e la preminenza nella primitiva comunità cristiana di Gerusalemme. Non è un caso, che proprio questi tre apostoli furono gli unici anche a ricevere un nome nuovo da parte del Signore al momento della loro chiamata. Simone infatti venne chiamato fin da subito Pietro, mentre Giacomo e Giovanni vennero chiamati Boanerges, ossia figli del tuono. Il nome "Pietro" (ossia, pietra) è stato successivamente al centro di un gioco di parole di Cristo in relazione alla fondamentale proclamazione della costituzione della sua Chiesa, mentre il nome "figli del tuono" ha trovato espressione nello zelo di questi due fratelli, dimostrato per esempio in Samaria (cfr. Lc 9:54). In questa occasione essi sono stati sgridati dal Signore, ma sicuramente tanto il loro carattere quanto quello di Pietro sono stati affinati da Dio, raggiungendo la santa maturazione necessaria al loro gravoso incarico. Essi hanno rappresentato le prime pietre viventi della Chiesa di Cristo (1 Pt 2:5), piene della potenza celeste dei tuoni: ripieni, cioé, della potenza (dynamis) dello Spirito Santo, capace di operare miracoli e opere sovrannaturali. Il nuovo nome ha sancito l'inizio di una nuova vita per tutti gli apostoli e in particolare anche per Simone, Giacomo e Giovanni. Da una vita di pesca e famiglia, sono passati ad una vita ripiena della sovrannaturale potenza dello Spirito Santo, della predicazione della Parola di Dio e della formazione di nuovi discepoli; in modo analogo a quanto è accaduto ai profeti dell'Antico Testamento (cfr. 1 Re 19:19).
Apocalisse 2:17 Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.
A chi vince io darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve.
Spostando il nostro sguardo dai protagonisti dei racconti biblici, possiamo a questo punto tornare con la nostra attenzione alla promessa escatologica del profeta Isaia. Se egli profetizzò che il Signore avrebbe dato un nome nuovo ai suoi servi, nell'Apocalisse di Giovanni abbiamo una conferma di questa profezia, e una nuova indicazione che pone questo avvenimento come un premio per coloro che vincono. Le sette lettere agli angeli delle chiese dell'Asia Minore del I secolo, rappresentano dei preziosissimi messaggi diretti in primo luogo alle rispettive comunità, e in secondo luogo a tutte le chiese di qualsiasi epoca. Ecco quindi che questo nuovo nome viene ora promesso a coloro che vincono, ossia a coloro che rimangono fedeli al nome del Signore rifuggendo ogni forma di idolatria. Il nuovo nome è promesso ai figli di Dio, ed è aggiunto alla salvezza eterna così come la nascita naturale è associata ad un nome per i bambini e le bambine. Questo nome sarà conosciuto solo da coloro che lo ricevono, perché non sarà un nome con lo scopo di rendere le persone distinguibili nella società, ma piuttosto un nome che suggellerà la personale relazione tra i singoli credenti ed il Signore. In questo nuovo patto, tutti conosceranno personalmente il Signore (Ger 31:34), e saranno non solo fidanzati (2 Cor 11:2) ma finalmente sposati (Ap 19:9) con lui.
Nel racconto della creazione in Genesi, il Signore aveva creato l'uomo, e la narrazione lo aveva sempre definito con questo termine: 'adam. Tale sostantivo deriva da un verbo che significa "mostrare rosso", ed entrambi i termini hanno in comune la stessa radice, ossia 'adamah, che significa terra. 'Adam quindi, pur essendo tradotto convenzionalmente come uomo, ossia come appartenente all'umanità, si potrebbe tradurre letteramente come terrestre rosso: un essere creato dalla terra rossiccia, forse argilla (Ge 2:7), e per questo motivo legato proprio alla terra (3:19). Tanto il convenzionale uomo, quanto il più specifico maschio usati nel racconto della creazione però, non sono dei veri nomi propri di persona. Nella Genesi non viene presentato un momento specifico in cui il Signore dona un nome preciso al primo uomo, esso è chiamato piuttosto con il nome del materiale da cui è stato tratto, in modo occasionale e non premeditato. Paradossalmente quindi, l'uomo ha dato un nome agli animali ma non ha ricevuto esplicitamente da Dio un vero nome, lasciando aperto un vuoto. Egli ha anticipato dei nomi nuovi agli uomini e alle donne ai quali si è manifestato e con i quali ha stretto un patto e una relazione, ma tutto questo è stata soltanto un'anticipazione del momento in cui Dio darà ad ogni singolo suo servo e sua serva un nome nuovo. La cultura ebraica, e di conseguenza quella biblica, concepisce il tempo in modo non lineare ma ciclico. Il susseguirsi del ciclo delle stagioni segnava il calendario delle festività date da Dio (Lev 23), e gli stessi interventi di Dio nella storia riprendono degli elementi di quelli passati come per le strofe di una poesia. Persino Gesù, una volta incarnato e nato, è dovuto andare in Egitto e successivamente stare quaranta giorni nel deserto, proprio come Israele fu schiavo in Egitto e dovette vagare per quarant'anni nel deserto. Cristo ha dovuto ricapitolare e riscattato il passato di Israele, prima di condurre l'umanità verso qualcosa di veramente nuovo. Allo stesso modo, quindi, il ciclo di Genesi è rimasto aperto in quanto Dio non ha mai dato un vero e proprio nome all'uomo, e spiritualmente questa mancanza ha continuato ad esistere. I nuovi nomi dati ai patriarchi e ai protagonisti dei racconti biblici sono solo delle anticipazioni del momento escatologico in cui questo ciclo dovrà chiudersi definitivamente. E potrà farlo solamente in un tempo preciso: se la mancanza del nome è avvenuta alla creazione infatti, solo al momento della nuova creazione (ossia al compimento di questo enorme ciclo che é la storia dell'universo) questa mancanza potrà essere colmata. Se la piena comunione tra Dio l'uomo è stata interrotta poco dopo la creazione, essa potrà essere interamente e definitivamente restaurata solo poco dopo la nuova creazione, in quanto al momento abbiamo solo le primizie dello Spirito (Ro 8:23). I pensieri del Signore sono più alti dei nostri pensieri, e le sue vie sono più alte delle nostre vie; e proprio per questo non c'è cosa più meravigliosa di riconoscere nella Scrittura la mano di Dio in ogni minimo dettaglio, anche nella semplice pratica di dare un nome.
Tutti coloro che sono segnati sul libro della vita, riceveranno un nuovo nome che il Signore già conosce. Un nome eterno, per una vita eterna alla presenza del Dio di ogni età.
Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria.
Colossesi 3:1-4
Avendo condiviso questo percorso di consapevolezza nel messaggio biblico relativo al nuovo nome dei servi di Dio, non possiamo a questo punto fare altro che aspirare alle cose di lassù, aspirare alla visione della gloria di Dio, alla vita eterna, ad avere un nuovo nome con un corpo di resurrezione. Aspiriamo a queste cose perché questa, in quanto credenti, è parte importante della nostra eredità. Questa è la direzione verso cui stiamo correndo e per la quale stiamo lottando, giorno dopo giorno, fino a quando saremo con Cristo manifestati in gloria.
Note:
[1] Miegge Giovanni (ristampa della seconda edizione riveduta e aggiornata di Bruno Corsani e J.Alberto Soggin, Giorgio Tourn), Dizionario Biblico, ed. Claudiana, p. 415.
[2] Cohen L., Beyreuther E., Bietenhard H., Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Edizioni Dehoniane Bologna, p. 41.
[3] La Bibbia con note e commenti di John McArthur, Società biblica di Ginevra, p. 78.
[4] Id., Ibid.
[5] Id. Ibid., p.103
[6] Id. Ibid.
[7] http://www.etymonline.com/index.php?term=Daniel
[8] La Bibbia con note e commenti di John McArthur, Società biblica di Ginevra, p. 1219.
[9] http://it.wikipedia.org/wiki/Marduk
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