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martedì 12 agosto 2014

Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio

Schema della Lettera agli Ebrei
La lettera agli Ebrei è stata scritta da un autore anonimo. Nella storia del cristianesimo si è tentato di associarla ad una presunta paternità di Paolo, Barnaba, Sila, Apollo, Luca, Priscilla, Filippo, Aquila e Clemente di Roma, pur senza raggiungere mai argomentazioni sufficientemente conclusive per nessuno di essi. In ogni caso, come disse Girolamo scrivendo al patrizio Claudieno Postumo Dardano, non ha importanza chi ne sia l'autore, dal momento che è opera di un uomo di chiesa e serve nelle letture giornaliere delle chiese. Clemente (morto il 100 d.C.) è il primo a citarla, nella sua lettera ai Corinzi, assicurando con questa testimonianza la prova di una redazione antecedente al 100. L'utilizzo del tempo presente in molti brani relativi agli elementi rituali del culto nel tempio di Gerusalemme porterebbe la sua redazione ad un periodo precedente al 70 d.C., anno in cui quest'ultimo fu distrutto. Viene quindi comunemente accettata una datazione compresa tra il 67 ed il 69 d.C.

L'autore dà per scontata una buona conoscenza del libro del Levitico, che utilizza ampiamente alla luce del Vangelo proprio per supportare la superiorità del Nuovo Patto in Cristo Gesù. Pur non essendoci un chiaro riferimento ai destinatari dell'epistola, fin dal II secolo essa è conosciuta con il nome "agli Ebrei", proprio per il tipo di tematica trattata, affrontata coinvolgendo in larga parte la tradizione ebraica e l'Antico Testamento. 


Frammento del Papiro 46
Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi.
Lettera agli Ebrei 1:1-3 

Al contrario delle altre epistole (con qualche eccezione come 1 Giovanni), la lettera agli Ebrei non inizia con il nome del mittente, ma si apre direttamente con una prima frase. Dio (θεός - theos), da molte parti, per molte volte, e in molti modi (πολυμέρως - polumerōs) ha parlato anticamente (πάλαι - palai) ai padri per mezzo dei profeti. Una delle prime difficoltà che il cristianesimo dovette affrontare nel mondo greco romano, è stata quella di superare lo scetticismo di una società che associava l'autorità ed il valore di una filosofia o religione soltanto al grado di antichità. Se una religione pensava di avere un peso maggiore di altre, o addirittura pretendeva di essere l'unica vera, doveva per forza anche essere la più antica. Il cristianesimo invece sembrava essere una novità. Come novità, suscitava interesse (Atti 17:21), ma soltanto in modo superficiale, non avendo apparentemente le caratteristiche per competere con le più antiche tradizioni filosofiche. Nel corso del primo secolo, e dei secoli successivi, il pensiero cristiano comprese sempre meglio la sua identità in relazione con il giudaismo. Comprese di non essere né una setta ebraica (come volevano i giudeo cristiani), né una nuova religione che adorava un nuovo dio (come più tardi affermò Marcione), ma piuttosto la manifestazione di un Nuovo Patto con l'unico e vero Dio, lo stesso Dio dell'Antico Testamento che più volte parlò ai profeti in merito a questa nuova epoca. Ecco quindi la dimostrazione che il cristianesimo non era affatto una novità, ma anzi, derivava dall'antichissima religione giudaica, pur essendone una continuazione divergente. 

In questi ultimi (ἔσχατος - eschatos) giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio. Lo stesso Dio che ha parlato anticamente ai profeti infatti, ha parlato a noi anche in questi giorni finali, ultimi. Ma lo ha fatto in un modo diverso. Non più attraverso dei messaggi comunicati con il suo Spirito ad alcune persone, ma piuttosto in prima persona attraverso il Figlio. Se la legge è stata data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità infatti sono state date per mezzo di Gesù Cristo (Giovanni 1:17), il Logos preesistente, la Saggezza di Dio che era in principio con Dio ed era Dio stesso (Proverbi 8, Giovanni 1:1). Abbiamo così due epoche. Una prima età, nella quale Dio ha parlato attraverso i profeti, ed una seconda età nella quale Dio ha parlato attraverso il Figlio. In realtà, tutta la lettera non fa altro che affrontare il tipo di relazione esistente in queste due espressioni della rivelazione di Dio, mostrando in molteplici modi quanto Cristo sia superiore a tutti gli elementi del Vecchio Patto. Le cose che abbiamo appreso per mezzo del Figlio quindi, non sono soltanto le ultime ma sono anche quelle definitive


...Che Egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi (αἰών - aiōn). Il termine reso con mondi, significa anche epoca, eternità. In accordo con l'alta cristologia della teologia paolina e giovannea, l'autore presenta immediatamente nella sua lettera il Figlio di Dio come erede e creatore di tutte le cose e di tutto il tempo. Retrospettivamente, tutto l'Antico Testamento parla di Cristo ed è ombra dei beni futuri (Eb 10:1). Egli era la Parola di Dio con la quale è stato creato l'universo, così come viene descritto in Genesi. Egli era presso il Padre come un artefice; era sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, si rallegrava in ogni tempo in sua presenza; si rallegrava nella parte abitabile della sua terra, trovava la sua gioia tra i figli degli uomini. Infatti, Egli è lo splendore della sua gloria e l'immagine esatta (χαρακτήρ - charaktēr) della sua persona (ὑπόστασις - hupostasis). Il termine ipòstasi è proprio quello che sarà in seguito utilizzato nella descrizione della dottrina trinitaria, che vede nel Padre, Figlio e Spirito Santo tre ipòstasi (persone) che sono tuttavia della stessa sostanza. Come disse in altre parole l'apostolo Giovanni, nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere. Sebbene questo sia un mistero, è tuttavia un mistero da meditare ed accettare, in quanto nessuno può andare al Padre se non per mezzo di Cristo (Gv 14:6). Nel corso della storia ci sono state molte personalità che hanno interpretato la figura del Figlio in un modo distorto rispetto alla testimonianza delle Scritture, tra le quali spicca in particolar modo il presbitero Ario. Alcuni vedevano in Cristo un semplice uomo
"posseduto" per un certo tempo dallo Spirito Santo, altri vi scorgevano una natura divina solo apparentemente in forma umana, altri ancora pensavano fosse semplicemente YHWH sotto altre spoglie, manifestato in altro "modo", oppure addirittura una divinità differente, per alcuni anche inferiore. Alcune di queste dottrine sono state formulate per difendere il monoteismo, oppure come reazione ad ulteriori e differenti correnti eretiche. In certi casi però, vi posso ravvisare lo stesso smarrimento del popolo di Israele quando, vedendo la gloria e la trascendenza di Dio, non poté fare a meno che costruirsi un idolo d'oro da adorare. Qualcosa di materiale, concreto e conosciuto, che fosse molto più comodo rispetto ad un unico Dio onnipotente e invisibile (Es 32). In questa occasione il Signore aveva appena finito di comunicare a Mosè le modalità di costruzione del tabernacolo e dell'arca del patto, a prova della sua volontà di rivelarsi maggiormente e dimorare nel suo popolo. Allo stesso modo, dopo la dimora di Dio tra il suo popolo nella persona del Figlio, e la piena rivelazione del Nuovo Patto testimoniato dagli apostoli, alcuni ancora una volta non compresero tutto questo, volendo invece "costruire" qualcosa di più comodo ed accettabile: un idolo a forma di Cristo. 

E' Gesù Cristo infatti, che sostiene (φέρω - pherō̄  ) tutte le cose con la parola della sua potenza (δύναμις - dunamis), e che dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi. Sebbene anche i deisti concordino con l'esistenza di un Dio creatore, la Scrittura è chiara nell'affermare che questo stesso Dio non solo ha creato il cosmo, ma ne è anche il supremo sostenitore. Gesù Cristo non ha solo creato i mondi ma li sostiene anche al presente. Egli, pur essendo alla destra del Padre, continua a sostenere ogni aspetto del creato. Il Catechismo Maggiore di Westminster affermerà che "le opere della divina provvidenza sono la Sua attività santissima, sapientissima e potentissima di preservazione e governo di tutte le Sue creature. Essa consiste nello stabilire le Sue creature e le loro azioni per la Sua propria gloria." Ogni credente ha piena ragione a confidare nella provvidenza e nel governo che il Signore ha sempre esercitato nella storia, e di cui le Scritture testimoniano in abbondanza. L'apostolo Paolo spiegò agli Ateniesi di come Dio ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, ed è così anche al tempo presente. Il governo di Cristo è attuato con la parola della sua potenza. La stessa potenza (dunamis) che egli promise ai discepoli per pentecoste (Atti 1:8), che permette la salvezza per chiunque crede (Rm 1:16) e che ha risorto Gesù Cristo (Filippesi 3:10), è in atto in questo stesso istante per il sostentamento di tutte le cose. Ebbene, questo Signore, ha compiuto la purificazione dei peccati, esattamente come prescritto a Mosè (Cfr. Levitico, in particolare il capitolo 16), ma in modo perfetto ed eterno:

Ma venuto Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri, egli, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d'uomo, cioè, non di questa creazione, è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna.
Ebrei 9:11,12 

Dopo di che, si è seduto alla destra della maestà del Padre, nei luoghi altissimi, da dove intercede di continuo per ogni credente, fino al suo ritorno (Cfr. Rm 8:34, Ef 1:20, Col 3:1). In questi pensieri troviamo la giustizia salvifica di Dio, la potenza che può sostenerci e che agirà esplodendo nel massimo del suo splendore al momento della resurrezione e della piena manifestazione dei figli di Dio (Rm 8). Questo è il cuore del cristianesimo stesso, la ragione della fede ed il suo scopo, il luogo dal quale tutti noi credenti proveniamo ed anche quello in cui tutti noi, insieme, siamo diretti. Questo è il senso della lode, dell'adorazione, della lettura biblica devozionale, dello studio, delle celebrazioni domenicali, delle opere di misericordia, dell'esercizio dei doni spirituali, dell'evangelizzazione, dell'assistenza sociale, della collaborazione ministeriale, della scrittura di libri spirituali, e di ogni altro aspetto della vita. Ogni cosa proviene da lui ed è per lui, Gesù Cristo: il creatore e compitore della nostra comune fede. 


Considerazioni finali

La lettera agli Ebrei è da considerare tra i massimi esponenti neotestamentari della cosiddetta alta cristologia, mostrando, insegnando e convincendo della piena divinità ed umanità di Gesù Cristo. Nei soli tre versetti di apertura, presenta un'eccezionale ricchezza teologica che anticipa di un paio di decenni quella giovannea, seguendo senza dubbio le orme che l'apostolo Paolo calcò a questo riguardo, soprattutto nella sua lettera ai Filippesi. 

Questi versetti presentano una chiara cerniera con l'Antico Testamento, dal quale non ci si vuole discostare completamente ma piuttosto utilizzare per dimostrare il significato più profondo del cristianesimo e dell'opera di espiazione del Signore, allontanandosi invece da coloro che tanto allora quanto oggi vorrebbero mettere il vino nuovo in otri vecchi (cfr. Mc 2:22). 

Nel solo terzo versetto, abbiamo di fatto il riassunto dell'intero Vangelo: la natura di Cristo, il significato del suo sacrificio e la sua attuale condizione gloriosa alla destra del Padre. Queste uniche due frasi sembrano di fatto riassumere l'intera lettera, senza peraltro omettere alcun elemento significativo. 

La loro (ri)scoperta è senz'altro una magnifica occasione di approfondire la propria fede, nutrendola con le stesse parole che hanno esortato, edificato e consolato un numero incalcolabile di cristiani in questi ultimi duemila anni. 

mercoledì 6 agosto 2014

Le sette lettere dell'Apocalisse (parte V): la chiesa di Sardi

«All'angelo della chiesa di Sardi scrivi:
Queste cose dice colui che ha i sette spiriti di Dio e le sette stelle:
"Io conosco le tue opere: tu hai fama di vivere ma sei morto. Sii vigilante e rafforza il resto che sta per morire; poiché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricòrdati dunque come hai ricevuto e ascoltato la parola, continua a serbarla e ravvediti. Perché, se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, e tu non saprai a che ora verrò a sorprenderti. Tuttavia a Sardi ci sono alcuni che non hanno contaminato le loro vesti; essi cammineranno con me in bianche vesti, perché ne sono degni. Chi vince sarà dunque vestito di vesti bianche, e io non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma confesserò il suo nome davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese".
Apocalisse 3:1-6 
1.Introduzione

Dopo le lettere destinate alle chiese di Efeso, Smirne, Pergamo e Tiatiri, arriviamo ora con il terzo capitolo dell'Apocalisse alla lettera che Gesù Cristo detta a Giovanni per la chiesa di Sardi.

Guardando la cartina possiamo osservare la vicinanza di tutte queste comunità locali, che Giovanni sicuramente conosceva. La successione delle varie chiese sembra quasi seguire un ipotetico viaggio ministeriale dell'Apostolo che in senso orario tocca tutte le comunità dell'Asia Minore del I secolo. Come abbiamo visto nei precedenti articoli, tutte le sette lettere presentano un preciso schema con una presentazione di Gesù, un apprezzamento degli aspetti positivi della comunità, una condanna di quelli negativi, una correzione, l'incoraggiamento a perseverare e l'esortazione finale "c
hi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese".











2.La presentazione di Cristo

Alla chiesa di Sardi, Gesù si presenta come colui che ha i sette spiriti di Dio e le sette stelle. I sette spiriti richiamano l'espressione utilizzata all'inizio del libro (Ap 1:4), quando Giovanni si rivolge alle sette chiese rivolgendo a loro grazia e pace da colui che è, che era e che viene (il Padre), dai sette spiriti che sono davanti al suo trono (lo Spirito nella sua pienezza) e da Gesù Cristo, testimone fedele, primogenito dai morti e principe dei re della terra. Questo concetto teologico tuttavia ha origini molto più antiche, da ricondurre al libro del profeta Isaia, e più specificamente alla porzione chiamata "libretto dell'Emmanuele" (cc. 7-12) che profetizza l'avvento del Messia con una sovrapposizione agli eventi della guerra siro-efraimitica, in quel tempo attuali, secondo lo stile della prospettiva profetica. Leggiamo infatti:

Poi un ramo uscirà dal tronco d'Isai,
e un rampollo spunterà dalle sue radici.
Lo Spirito del SIGNORE riposerà su di lui:
Spirito di saggezza e d'intelligenza,
Spirito di consiglio e di forza,
Spirito di conoscenza e di timore del SIGNORE.
Isaia 11:1,2 

Lo Spirito del Signore (1) dovrà riposare sul Messia come Spirito di saggezza (2), di intelligenza (3), di consiglio (4), di forza (5), di conoscenza (6) e di timore del Signore (7). Nella Lettera ai Romani (15:8-12), l'Apostolo Paolo cita l'inizio di questo brano mostrando che Gesù Cristo è proprio questo rampollo tanto atteso, sul quale sarebbe dimorata la pienezza dello Spirito Santo. Per questo motivo Egli può presentarsi alla chiesa di Sardi come colui che ha i sette Spiriti di Dio, ossia come colui sul quale riposa la pienezza dello Spirito di Dio. 

Oltre ai sette Spiriti però, Gesù ha anche sette stelle. In questo caso il significato è più semplice ed è da trovare unicamente nel libro dell'Apocalisse. Il Signore appare a Giovanni in mezzo a sette candelabri (1:13), con sette stelle nella sua mano destra (1:16) e una spada a due tagli che usciva dalla sua bocca. Cristo stesso però gli dice che le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese (1:20). Come abbiamo visto negli studi relativi alle precedenti lettere, gli angeli delle chiese rappresentano i rispettivi responsabili. Gesù quindi si presenta alla comunità di Sardi come colui che ha la pienezza dello Spirito e i responsabili delle comunità a cui si rivolge. Egli infatti è il capo supremo della Chiesa (Ef 1:22) ed i ministeri non sono altro che Suoi doni (Ef 4:11). Il Signore sta parlando alla comunità di Sardi con la pienezza della Deità (Col 2:9) e l'autorità suprema su tutta la Chiesa.


3.Il ritratto di una chiesa morente 

Il secondo punto dello schema comune alle sette lettere dell'Apocalisse, viene in questo caso completamente stravolto. Gesù infatti non identifica alcun punto positivo per questa chiesa e passa direttamente a presentare gli aspetti negativi: "tu hai fama [letteralmente: tu hai nome] di vivere ma sei morto". L'esortazione è quella di vigilare e rafforzare il resto che sta per morire, ricordare l'attitudine con la quale la chiesa ha ricevuto il Vangelo e ravvedersi. La maggior parte dei credenti di questa comunità stava morendo spiritualmente: stavano per morire pur avendo nome di viventi. La comunità esisteva, era conosciuta nella regione, ma spiritualmente era arrivata quasi a non esistere più. La fiamma dello Spirito Santo non infuocava più come a pentecoste, ma era quasi spenta, ridotta a poco più di un lucignolo fumante. Non sappiamo cosa abbia portato la chiesa di Sardi fino a questo punto, ma l'assenza di riferimenti specifici (che non mancano invece nelle altre lettere) può far pensare ad un semplice ma letale allontanamento dall'ascolto e dalla comunione con lo Spirito Santo. E' probabile che più che la licenziosità, il pericolo si fosse presentato sotto forma di tradizionalismo e vuota religiosità, in una situazione analoga a quella più volte denunciata dal profeta Isaia nei riguardi del popolo di Giuda. Circa quarant'anni prima, l'Apostolo Paolo esortò la comunità di Tessalonica a non spegnere lo Spirito (1Ts 5:19). Ebbene, la lettera alla chiesa di Sardi mostra cosa succede proprio se si spegne lo Spirito, giorno dopo giorno, in una intera comunità cristiana. Risulta quasi difficile credere che questo possa avvenire, ma il testo biblico risulta molto chiaro in proposito. Alla fine del I secolo la chiesa di Sardi era conosciuta dagli altri cristiani, ma Cristo, che conosce le opere di ciascuno, sapeva bene quanto in realtà fosse vicina alla morte.

La riprensione continua con le seguenti parole: "se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, e tu non saprai a che ora verrò a sorprenderti". Questa espressione è molto simile a quella utilizzata in altri passi del Nuovo Testamento in relazione alla seconda venuta di Cristo (p.es. 1 Ts 5:2), ma il contesto suggerisce invece che sia un vero e proprio giudizio pendente sulla comunità. Se non vi fosse trovata una correzione dopo il messaggio, il Signore avrebbe tolto il candelabro dalla chiesa di Efeso, combattuto contro coloro che professavano la dottrina dei Nicolaiti nella chiesa di Pergamo, messo in tribolazione coloro che avevano fornicato con la nuova Iezabel nella chiesa di Tiatiri, e sorpreso di nascosto con il proprio giudizio la chiesa di Sardi. 

Tuttavia a Sardi vi erano anche alcuni che non avevano contaminato le loro vesti, e che quindi si erano mantenuti puri. Questa frase sembra richiamare il concetto teologico della chiesa invisibile, e manifesta il fatto che per quanto una comunità possa essere spiritualmente corrotta e moribonda, vi si potranno molto spesso trovare ugualmente credenti sinceri. A loro non è fatta alcuna colpa, ma al contrario sono riconosciuti dal Signore come degni di camminare con lui in bianche vesti. 


4.Avvicinandosi alla "ricompensa" secondo la critica delle fonti

La ricompensa degli irreprensibili della chiesa di Sardi è quella di vestire con vesti bianche ed avere il proprio nome scritto nel libro della vita e confessato da Gesù davanti al Padre e ai suoi angeli. Quest'ultima espressione richiama alla mente la prima parte di un celebre loghion (ossia, un detto) di Gesù, presente nei vangeli di Luca e Matteo:  


Luca 12:8 Or io vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo riconoscerà lui davanti agli angeli di Dio.

Matteo 10:32 Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli.

ll fatto che esso non sia presente nel vangelo di Marco, secondo la teoria delle due fonti, farebbe risalire questa frase (in una forma arcaica lievemente differente ad entrambe) all'antica fonte Q [1]. La teoria delle due fonti afferma che per la redazione dei vangeli di Luca e Matteo siano state utilizzate principalmente due fonti: il vangelo di Marco e appunto una ulteriore fonte detta "Q", che rappresenterebbe in ogni caso una semplice ipotesi letteraria. Questa fonte sarebbe stata costituita unicamente da frasi di Gesù, senza alcuna cornice narrativa. 

La versione dell'Apocalisse di Giovanni appare come una sintesi delle due versioni, assimilando il riconoscimento tanto agli angeli di Dio quanto al Padre che è nei cieli. La frase inizia la sua conclusione come la versione matteana e la porta a termine rielaborando la versione lucana. Sicuramente al tempo della redazione dell'Apocalisse di Giovanni esistevano già entrambi i vangeli, ed è lecito pensare che l'autore abbia attinto a queste fonti (o eventualmente ad una versione della stessa fonte Q) per scrivere l'ultima sezione della lettera alla chiesa di Sardi. Trovo significativo a questo riguardo il contesto in cui è inserito il loghion nei due vangeli. Nel contesto di Luca infatti, Gesù stava mettendo in guardia dal lievito dei farisei, mentre in quella di Matteo profetizzava le persecuzioni imminenti. Ebbene, nel nostro brano il Signore riprende duramente una chiesa dal comportamento farisaico, simile ad un sepolcro imbiancato - bello di fuori ma dentro pieno d'ossa di morti (Mt 23:27). Per la contrapposizione visibile nelle altre lettere tra l'aspetto riconosciuto/condannato nelle comunità e il premio per chi lo riesca a superare, è sicuramente verosimile l'accostamento tra una ipocrisia farisaica e un riconoscimento davanti al Padre che almeno in un vangelo viene riconosciuto proprio a coloro che si guardano da questo "lievito" (cfr. Lc 12:1), pur subendo da questo genere di persone trattamenti ed accuse ingiuste (Lc 12:11) che trovano un loro parallelo nel contesto del vangelo di Matteo.
5.L'interpretazione della Riforma


La Riforma Protestante ha applicato a questo brano un'interpretazione storica. Le sette lettere rappresenterebbero quindi un tempo scandito in sette periodi, iniziato con la resurrezione di Cristo e che arriverà al suo termine con la tribolazione. La lettera alla chiesa di Efeso rappresenterebbe la chiesa apostolica (33 - 100 d.C.), quella alla chiesa di Smirne la chiesa perseguitata (100 - 312), Pergamo sarebbe la chiesa indulgente (312 - 616), Tiatira quella corrotta (dal 606 alla tribolazione) e Sardi la chiesa morta (dal 1520 alla tribolazione). In essa si rispecchierebbe quindi il cristianesimo nell'epoca immediatamente successiva alla Riforma stessa, che si identificherebbe con coloro che non hanno contaminato le loro vesti, e che sono perciò chiamati ad avere il proprio nome nel libro della vita ed essere riconosciuti dal Signore. I credenti che in quel tempo hanno aderito alla Riforma infatti erano all'interno della Chiesa Cattolica Romana proprio come i fedeli della chiesa di Smirne erano dentro questa stessa comunità. Tale visione viene proiettata fino al tempo della tribolazione prendendo probabilmente letteralmente le parole di Gesù "io verrò come un ladro, e tu non saprai a che ora verrò a sorprenderti" legandole quindi ad un tempo escatologico, in accordo con gli altri passi del Nuovo Testamento (Mt 24:43, 1 Ts 5:2, 2 Pt 3:10). 

6.Considerazioni finali

Oltre all'interpretazione storica, esistono principalmente altre tre visioni differenti. C'è l'interpretazione preterista che vede questo brano in relazione unicamente alla chiesa di Sardi del I secolo, quella idealista che svincola il testo da qualsiasi contorno storico per poterlo mitizzare e renderlo usufruibile in qualsiasi contesto e infine la visione futurista che considera queste sette lettere nel loro periodo storico, proiettando però tutto il resto dell'Apocalisse verso il futuro.  

Anche per questa lettera, la mia riflessione si sofferma sulla situazione storica di questa chiesa nel I secolo, riconoscendo però un valore generale applicabile a tutte le comunità cristiane che nel corso della storia si sono riconosciute nella stessa situazione. Purtroppo infatti anche al giorno d'oggi esistono chiese che hanno nome di esser vive ma in realtà sono morte spiritualmente. Chiese che si sono dimenticate come si vive camminando secondo lo Spirito (Gal 5:16) adempiendo di fatto i desideri della carne. Desideri che non per forza riguardano scandali eclatanti ma che molto più verosimilmente sono identificabili con il semplice e solo apparire, con una tradizione religiosa gratificante ma ormai priva di spiritualità. Tanto alla chiesa di Sardi, quanto a queste comunità più recenti, il Signore rivolge le stesse parole. 




Note:

[1] Cfr. Fricker Denis, Siffer Nathalie, La fonte Q, Ed. San Paolo, p. 66.
E' stata utilizzata l'edizione critica di ricostruzione della fonte dell'International Q Project
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