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domenica 3 luglio 2016

La Cena del Signore

Mangiatelo in questa maniera: con i vostri fianchi cinti, con i vostri calzari ai piedi e con il vostro bastone in mano; e mangiatelo in fretta: è la Pasqua del SIGNORE.
Esodo 12:11  

Purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito. Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata immolata.
1Corinzi 5:7  

INTRODUZIONE 












La liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù egiziana avvenuta attraverso il diretto intervento di Dio, rappresenta probabilmente il singolo evento di maggiore influenza sull'intero pensiero teologico ebraico veterotestamentario. La Torah lo descrive storicamente, e testimonia le circostanze e i motivi per cui è stata istituita di conseguenza la festa annuale di Pesach. I Nevi'im, ossia i Profeti, ricordano questo evento come una tra le più grandi occasioni nelle quali il Signore ha mostrato la sua potenza (p. es. Is. 63:11, Mi. 6:4). Ed i Ketuvim, ossia gli Scritti, celebrano in accordo con gli altri libri della Tanakh ancora una volta questa gloriosa liberazione verso la libertà e la conquista della Terra promessa (p. es. Sl. 77, 90, 99, 103, 105, 106). A volte il ricordo è gioioso e celebrativo, a volte malinconico e penitenziale a causa di una disubbidienza contingente. In un modo o nell'altro però, esso è sempre centrale nel pensiero religioso ebraico. La celebrazione della Pasqua ebraica è cambiata notevolmente nel corso dei secoli, insabbiandosi di tanto in tanto quando il popolo si allontanava dalle prescrizioni mosaiche, ma riprendendo ogni volta tutta la sua importanza e il suo vigore ad ogni successiva riforma religiosa di Israele. Nel giudaismo del secondo Tempio, si aggiungeranno altre due radici religiose nazionali: la dinastia davidica e il Tempio stesso. Tuttavia, l'avvenimento dell'Esodo manterrà sempre una dominanza speciale, soprattutto per coloro che vedevano nella Torah l'unico vero testo sacro da tenere in considerazione, come pensavano ad esempio i sadducei a partire dagli ultimi secoli prima della nascita di Cristo.

In modo simile, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo rappresenta il cuore dell'annuncio cristiano e di ogni suo pensiero teologico. I Vangeli raccontano le opere e i discorsi di Gesù, culminando la narrazione proprio con la sua morte e la sua risurrezione, intese come sacrificio sostitutivo per la salvezza di chiunque crede. Le lettere testimoniano di questo annuncio salvifico traboccato al di fuori degli stretti confini della Giudea, fino a raggiungere le genti delle estremità della terra. E l'Apocalisse di Giovanni profetizza le estreme conseguenze di questo sacrificio, accettato da alcuni ed avversato da altri, nella responsabilità della propria scelta palesata al ritorno del Signore. 

Ad un occhio distratto questi due avvenimenti possono sembrare scollegati fra di loro, ma ogni attento lettore biblico converrà nella loro sovrapposizione durante un preciso momento, conosciuto generalmente con il nome di "ultima cena", e celebrato dalla Chiesa cristiana nella "Cena del Signore" o "Eucarestia". L'ultima cena di Gesù prima di essere tradito, è stata infatti una cena pasquale. Una cena preparata dai suoi discepoli per festeggiare la Pasqua ebraica, ma che d'improvviso e in modo inaspettato ha assunto un significato più profondo agli occhi dei presenti e della successiva comunità cristiana postpasquale. Una Pasqua che ora non è più solamente commemorazione e celebrazione, ma che diventa invece un'occasione di reale comunione. Una reale comunione con l'Israele che vive un rinnovato patto con Dio. Una reale comunione con Gesù Cristo, il Signore crocifisso e risorto. Una reale comunione con il resto della comunità cristiana, popolo che Dio si è acquistato per proclamare le sue virtù (1 Pt. 2:9). Ecco quindi che la Pasqua, fulcro dell'Esodo e fulcro del Vangelo, si trasfigura davanti ai lettori delle Scrittura, assumendo su di sé tutta la centralità che le spetta, conducendo ogni singolo credente ed ogni singola comunità cristiana ed ebreo-messianica verso il giorno escatologico, nel quale ogni simbolo cederà posto alla realtà e ogni tempo cederà il posto all'eternità di Dio.

1.  COMUNIONE CON ISRAELE




















Osservate dunque questo come un'istituzione perenne per voi e per i vostri figli. Quando sarete entrati nel paese che il SIGNORE vi darà, come ha promesso, osservate questo rito. Quando i vostri figli vi diranno: "Che significa per voi questo rito?" risponderete: "Questo è il sacrificio della Pasqua in onore del SIGNORE, il quale passò oltre le case dei figli d'Israele in Egitto, quando colpì gli Egiziani e salvò le nostre case"». Il popolo s'inchinò e adorò. Poi i figli d'Israele andarono e fecero così; fecero come il SIGNORE aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne. 
Esodo 12:24-28

Approfondendo i capitoli 12 e 13 del libro dell'Esodo, possiamo trovare degli indizi sull'esistenza di due diverse ed antiche feste della natura celebrate dai contadini e dai pastori delle greggi, entrambe note con il nome di Pasqua1. L'intervento diretto di Dio ha però trasformato queste due feste unendole in una sola, caricandola inoltre di un nuovo ed inedito significato: da questo momento in poi, infatti, la Pasqua sarebbe stata del Signore, il quale passò oltre le case dei figli di Israele. Da festa della natura, si è trasformata quindi nella commemorazione e nel ricordo di un glorioso evento salvifico, una trionfante liberazione avvenuta solamente grazie alla potenza di Dio. Le vicende dell'Esodo come abbiamo già visto hanno plasmato l'identità religiosa del popolo di Israele costituendone di fatto il fondamento, al pari della storia dei Patriarchi. Questa festa commemorativa però non fu celebrata per tutto il tempo in cui il popolo vagò nel deserto, e venne fatta osservare per la prima volta da Giosuè, una volta attraversato il Giordano ed entrato assieme al resto di Israele nella Terra promessa:

I figli d'Israele si accamparono a Ghilgal e, sulla sera del quattordicesimo giorno del mese, celebrarono la Pasqua nelle pianure di Gerico. L'indomani della Pasqua, in quello stesso giorno, mangiarono i prodotti del paese: pani azzimi e grano arrostito. E la manna cessò l'indomani del giorno in cui mangiarono i prodotti del paese; e i figli d'Israele non ebbero più manna, ma mangiarono, quell'anno stesso, il frutto del paese di Canaan.
Giosuè 5:10-12

Questo momento ha sancito senz'altro la fine di un tempo di transizione: ormai entrati nella terra che Dio aveva promesso loro, i figli di Israele potevano ora sostenersi con i frutti di questo paese e celebrare con regolarità le festività comandate dal Signore. Nonostante questa nuova condizione però, con l'instaurarsi nella monarchia la celebrazione della Pasqua venne più volte sospesa, per essere ripresa in forma integrale solo dopo parecchio tempo: 

Poi Ezechia inviò dei messaggeri per tutto Israele e Giuda, e scrisse anche lettere a Efraim e a Manasse, perché venissero alla casa del SIGNORE, a Gerusalemme, a celebrare la Pasqua in onore del SIGNORE, Dio d'Israele.
2Cronache 30:1

Il re diede a tutto il popolo quest'ordine: «Celebrate la Pasqua in onore del SIGNORE vostro Dio, come sta scritto in questo libro del patto». Infatti la Pasqua non era stata celebrata così dal tempo dei giudici che avevano governato Israele, e per tutto il tempo dei re d'Israele e dei re di Giuda; ma nel diciottesimo anno del re Giosia quella Pasqua fu celebrata, in onore del SIGNORE, a Gerusalemme. 
2Re 23:21-23

Ezechia intorno al 700 a.C., e Giosia intorno al 633 a.C. ripristinarono dunque il rito della Pasqua in modo integrale. Fino alla riscoperta del libro del Deuteronomio dietro un muro del Tempio, l'agnello pasquale poteva essere preparato e mangiato in ogni comunità israelitica, ma dopo la presa di coscienza dei comandamenti di Deut. 16:1-8, tutto venne correttamente centralizzato nel luogo che Dio aveva scelto come dimora del suo nome, ossia Gerusalemme. La Pasqua assunse con l'uccisione di un capro (Num. 28:16-25) un ruolo espiatorio per i peccati del popolo, successivamente inoltre il sangue pasquale ricevette la stessa dignità delle gocce di sangue che sono versate al momento della cerimonia di circoncisione2. Durante il periodo ellenistico, si assistette ad un veloce distanziamento dalla tradizione originaria: dal 300 a.C. infatti gli israeliti iniziarono a festeggiare la Pasqua in grandi saloni attrezzati con divani, come se la celebrazione dovesse essere l'equivalente di un pranzo di festa greco, un cosiddetto "simposio"3. In questo periodo venne aggiunto il consumo del vino durante la cena, creando l'occasione di ubriacarsi, cosa che effettivamente accadeva con una certa frequenza4. Nell'ultima cena di Gesù, egli avrebbe potuto lamentarsi di queste modifiche nella prassi del pasto rituale, ma invece di farlo, egli comandò ai discepoli di preparare il salone secondo le usanze del periodo, provvedendo alla presenza anche degli altri alimenti e del vino. L'intenzione di Gesù infatti era quella di intervenire in modo ancora più radicale di quanto avrebbe potuto fare con una semplice riforma, trasformando il cuore della celebrazione piuttosto che le sole pratiche esteriori.

Nei secoli successivi, avvennero ulteriori aggiunte e cambiamenti. In primo luogo il ruolo dei bambini assunse un ruolo sempre più rilevante. Secondo le liturgie odierne infatti uno o più bambini durante la serata devono porre domande del tipo "Che cosa significa questo rito", oppure "Perchè questa notte è diversa dalle altre notti?" Alle domande dei primi tre bambini viene risposto in modo puntuale e garbato. Il quarto bambino però  deve interpretare la parte di un miscredente ed esprimere la convinzione che l'intera festa non abbia senso. A questo bambino si risponde affermando: "Se tutti noi avessimo pensato come pensi tu, saremmo ancora schiavi dell'Egitto". L'idea dell'esclusione di persone scettiche alla cena infatti nel tempo lasciò il posto ad una scelta pedagogica che fosse di esempio per tutta la comunità5. In secondo luogo vennero introdotte almeno quattro coppe per partecipante e promossa una minuziosa e allegra ricerca di ogni avanzo di cibo lievitato nella casa, per poterlo buttare via purificando in questo modo la dimora6. In terzo luogo, venne predisposta una sedia in più per Elia e una coppa piena fino all'orlo: il precursore del Messia rimane sempre atteso, nella speranza che il meglio debba ancora venire e che la grande liberazione  e riunificazione finale di tutto il popolo di Israele sia imminente7.  

Ma come può l'ultima cena di Gesù rappresentare un motivo di comunione con Israele? Ebbene, tutti i riferimenti al ricordo, al sangue del patto sparso (per la remissione del peccato), al nuovo patto, come le espressioni per voi e per molti, conservano la connotazione che essi hanno nella Bibbia e nel culto di Israele8. Mentre l'espressione "questo è" non risponde alla domanda implicita "Cosa stiamo mangiando o bevendo ora?", ma piuttosto alla domanda "Perché stiamo celebrando questa cena?", visto il pronome neutro touto usato al posto del pronome maschile houtos9. Dunque Gesù, dicendo "questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti", intende ridefinire lo scopo della celebrazione della Pasqua: non più commemorazione di una liberazione vissuta da Israele nel passato, ma ora celebrazione di un nuovo patto, sancito con il suo sangue e allargato a molti. Il corpo ed il sangue di Gesù infatti, stava per sostituire la funzione precedentemente svolta dal corpo e dal sangue di circa 10.000 agnelli, una sostituzione però che non sarebbe più andata a beneficio esclusivo di Israele ma ora a quello del mondo intero10. Nella Lettera agli Efesini leggiamo: 

Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. 
Efesini 2:13-16

Mediante il suo sacrificio, Gesù ha abbattuto il muro che separava Giudei e Gentili, creando in se stesso un solo popolo nuovo. In questo modo, ha provveduto tanto una riconciliazione con il Padre per entrambi, quanto una riconciliazione e una comunione reciproca tra questi popoli, una comunione che altrimenti sarebbe stata impossibile. Per questo motivo, in virtù del sacrificio di Cristo celebrato da allora in avanti con la Cena del Signore, ogni credente è spiritualmente in una posizione di comunione con Israele. Purtroppo la storia della Chiesa cristiana è testimone di innumerevoli incomprensioni di questa realtà, ma rinnovando la propria disponibilità all'ascolto e all'ubbidienza dei testi biblici non si può fare altro che avvicinarsi verso questa consapevolezza, per vivere appieno l'Eucarestia secondo le intenzioni dello stesso Signore che l'ha istituita in questo modo più di duemila anni fa.

2. COMUNIONE CON CRISTO






















Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».
1Corinzi 11:23-26 

Questo brano rappresenta la più antica testimonianza neotestamentaria sull'istituzione della Cena del Signore11. Esso non afferma esplicitamente che la notte in cui Gesù fu tradito egli stesse celebrando la cena pasquale (come affermano invece i Vangeli sinottici), ma è possibile riscontrare comunque un indizio interno alla lettera che va in questa direzione (1 Cor. 5:7). Come abbiamo già visto, Gesù ruppe il pane affermando "Questo è il mio corpo che è dato per voi", con lo scopo di definire un nuovo motivo per il quale celebrare la Pasqua. Perché celebrarla in quanto discepoli di Cristo? Per il suo corpo, dato per ciascuno di noi; per il nuovo patto sancito dal sangue del suo sacrificio. Il sacrificio di Cristo, rilancia il riscatto dalla schiavitù vissuto anticamente da Israele allargandolo a tutta l'umanità e alla natura stessa di peccato e di mortalità insita nell'essere umano. Una liberazione quindi che non è più solo dagli egiziani e per Israele, ma diventa liberazione dal peccato e dalla morte, per tutti coloro che credono che Gesù sia il Signore, confessandolo con la propria bocca. Ma le affermazioni di Cristo non terminano qui, continuando in questo modo:

26a: Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice,
26b: voi annunciate la morte del Signore,
26c: finché egli venga.

E' utile in questo momento iniziare a riflettere su questa frase così importante partendo dalla sua parte centrale: "Voi annunciate la morte del Signore". La Cena è proclamazione della morte di Cristo. Una proclamazione di morte in realtà gioiosa, in quanto vi è la potenza di Dio per la salvezza (1 Cor. 1:18). Nella morte in croce del Signore c'è la salvezza, e la Cena proclamando questa morte la annuncia di conseguenza. Tutte le reazioni comuni alla morte di una persona cara vengono sorpassate da questo evento, che è stato seguito da una sovrannaturale risurrezione. Ma c'è di più:

Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.  
Romani 5:8  
 
La morte di Cristo è avvenuta prima che l'enorme maggioranza dei suoi discepoli si convertisse, anzi queste conversioni sono avvenute proprio per il suo amore per loro, manifestato con la sua morte, quando ognuno di essi era ancora peccatore. La proclamazione, l'annuncio della morte del Signore nella Cena dunque si allarga di importanza andando ben oltre i commensali presenti nelle specifiche occasioni, arrivando ad includere in modo missionario anche tutti coloro che ne faranno parte in futuro. La mensa del Signore non è un evento privato o èlitario, ma al contrario è un'occasione e un centro d'evangelizzazione12. Tutti sono chiamati a rivolgere il proprio sguardo verso il Signore Gesù ed il suo sacrificio, annunciandolo senza intermediari, per includere il resto del suo popolo che fino a quel momento ancora non lo conosceva. Tutti i partecipanti alla Cena - insieme - sono araldi di Cristo, chiamati a ringraziarlo per aver donato se stesso, chiamati a confortare e sostenere gli altri fratelli per manifestare il legame di reciproco amore che il sacrificio del Signore ha prodotto, e annunciare a tutto il mondo che il popolo di Dio non ha un "numero chiuso" e che chiunque può aggiungersi13.   

"Finché egli venga." Questa espressione manifesta il carattere temporaneo di questa Cena, vissuta nell'attesa del banchetto escatologico futuro. La mensa del Signore è infatti il pasto del pellegrino, sono le provviste di Dio per un popolo in marcia14

Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. 
2Pietro 3:9

L'amore di Cristo infatti si manifesta anche attraverso la sua pazienza nel tornare, concedendo il giusto tempo affinché gli eletti possano aggiungersi alla sua mensa attraverso il ravvedimento, unendosi in questo modo alle fila del popolo che mentre lo aspetta continua ad annunciare la sua morte. Questo ciclo è il ciclo della salvezza nella Chiesa invisibile, chiamata ad edificare se stessa nell'amore (Ef. 4:16), e ad aspettare il ritorno dello Sposo. 
"Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice." 
Ogni volta che si celebra la mensa del Signore, si annuncia la sua morte e l'attesa del suo ritorno. Si mangia insieme il pane spezzato, bevendo insieme il vino del suo calice. Si celebra insomma con questo pasto comunitario tanto la salvezza di Cristo quanto la comunità stessa riunita attorno al tavolo e quella che ancora deve raggiungerlo. Si mangia il pane del suo corpo spezzato per acquistare un popolo, e il calice della gioia ma anche della sua e nostra sofferenza. Finché egli venga infatti, ogni discepolo del Signore attraversa le proprie prove, le proprie difficoltà e le proprie sofferenze condividendo quelle di Gesù (2 Cor. 1:5). Il pane resta pane, e il vino resta vino, ma la partecipazione alla salvezza e alla sofferenza sono reali e concrete, seppur vissute per mezzo della fede

3. COMUNIONE CON I COMMENSALI


Nel darvi queste istruzioni non vi lodo del fatto che vi radunate, non per il meglio, ma per il peggio. Poiché, prima di tutto, sento che quando vi riunite in assemblea ci sono divisioni tra voi, e in parte lo credo; infatti è necessario che ci siano tra voi anche delle divisioni, perché quelli che sono approvati siano riconosciuti tali in mezzo a voi. Quando poi vi riunite insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore; poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena; e mentre uno ha fame, l'altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e bere? O disprezzate voi la chiesa di Dio e umiliate quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo. 
1Corinzi 11:17-22

L'apostolo Paolo in questo brano riprende i credenti di Corinto, affermando che si radunavano per il peggio. Cosa rappresenta questo peggio? Nel capitolo precedente (10:19-22) apprendiamo che i corinzi si sentivano liberi di andare, prima o dopo la Cena del Signore, ai banchetti che si tenevano nei santuari pagani. Paolo poteva avere in mente culti orgiastici o misterici, durante i quali ci si poteva cibare di carne non dissanguata, lavandola col vino15. Essi erano convinti di essere così ripieni di Spirito Santo da poter essere protetti da qualsiasi condanna, arrivando a coniare la frase "tutto è lecito", espressione che noi potremmo tradurre con "tutto va bene"16. Ma la risposta dell'apostolo a questa libertà ostentata, è quella di tornare immediatamente all'autocontrollo, in modo da non essere dominati da nulla (1 Cor. 6:12). Non tutto è utile, infatti. Quello che i corinzi non avevano capito è che l'aspetto sacramentale e spirituale della fede non deve essere affatto slegato da una condotta irreprensibile, sia a livello personale che sociale. Dopo il problema dei banchetti pagani (un problema prima di tutto personale) infatti, se ne delinea velocemente un altro di simile gravità, ma dal risvolto più sociale. Appare chiaro dalle parole dell'undicesimo capitolo, che i membri della comunità più ricchi e importanti mangiavano assieme con abbondanza, riunendosi pubblicamente. E solo in un secondo momento, da sazi, ammettevano i membri più poveri, gli schiavi, i commercianti, i bottegai e gli artigiani, iniziando a celebrare con loro la Cena del Signore inducendoli in questo modo a sentirsi disprezzati e a vergognarsi17. Così mentre i credenti più poveri arrivavano alla mensa del Signore affamati, gli altri erano non solo sazi ma addirittura ubriachi! Questo significa disprezzare la Chiesa di Dio, pervertendo il senso della Cena del Signore, il cui significato è invece l'esatto opposto: includere tutti i credenti nel loro legame di amore reciproco scaturito dal sacrificio di Gesù. 

Perciò, chiunque mangerà il pane o berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ora ciascuno esamini se stesso, e così mangi del pane e beva dal calice; poiché chi mangia e beve, mangia e beve un giudizio contro se stesso, se non discerne il corpo del Signore. 
1Corinzi 11:27-29

Il requisito fondamentale che viene posto dall'apostolo Paolo per accostarsi al pane e al calice del Signore in modo degno è quello di discernere il suo corpo, ossia riconoscere i propri fratelli e le proprie sorelle nella fede come tali, onorandoli e sostenendoli nel modo dovuto loro. I talenti naturali e spirituali, la ricchezza, l'influenza, la bellezza, il ceto sociale, il sesso, l'età dei vari credenti non possono essere elementi di discriminazione perchè Cristo è tutto in tutti (Col. 3:11). Questa unità è proclamata proprio nell'annuncio della morte del Signore, è il frutto del suo sacrificio, e deve essere compresa e vissuta pienamente affinchè la comunità possa essere sana. Sì, il pane e il calice del Signore manifestano l'unità dell'intero corpo di Cristo, una profonda ed eterna comunione tra tutti i commensali. Anche questo è un'aspetto peculiare e fondamentale della Cena del Signore.

CONCLUSIONE






Riguardo all’eucaristia, così rendete grazie:
Dapprima per il calice: Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vita di David tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.
Poi per il pane spezzato: Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te gloria nei secoli.
Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra; perché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli.

Didaché 9:1-4 


Questa formula liturgica deriva dal testo della Didaché, scritto verso la fine del I secolo (come numerosi testi del Nuovo Testamento), molto probabilmente in Siria18. La preghiera conclusiva credo che possa rappresentare perfettamente il sentimento e la consapevolezza che vuole promuovere questo studio. Il grano sparso per la terra viene raccolto e lavorato insieme per poter produrre un'unica pagnotta di pane. Allo stesso modo, le genti sono state raccolte per tutta la terra al fine di diventare parte della Chiesa di Dio, per mezzo di Gesù Cristo. In comunione reciproca, in comunione con il Signore.

Come abbiamo visto infatti, la Cena del Signore rivela un triplice legame di comunione. Il primo con Israele, proiettando sulla festa di Pasqua un nuovo significato e abbattendo il muro di separazione che prima divideva gli israeliti dal resto delle nazioni.

Poiché non c'è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano.

Romani 10:12

Il secondo con Cristo. Con la sua morte, egli ha attirato tutti a sé (Gv. 12:32). Annunciando la sua morte, proclamiamo proprio questa comunione con lui.

Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. Perché se siamo stati totalmente uniti a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una risurrezione simile alla sua.
Romani 6:4-5

Il terzo, con gli altri credenti e persino con coloro che si aggiungeranno in futuro. Avendo in Dio il nostro Padre  - per mezzo del sacrificio di Cristo - siamo di fatto tutti fratelli e sorelle nel Signore. Una speciale relazione di fede che deve essere onorata al meglio delle nostre possibilità.

Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. 
Efesini 2:19 

Ringraziamo il Signore per questo meraviglioso dono, e stupiamoci ancora una volta del suo amore nei nostri confronti, capace di attraversare il tempo e le distanze fino ad arrivare al nostro cuore, qui, oggi. La Cena del Signore è un evento centrale nella vita comunitaria di ogni chiesa locale, ed è un momento da riscoprire in tutta la sua profondità per crescere nella fede e rendere grazie in modo opportuno a Dio. In comunione con Israele, con il Padre per mezzo di Cristo e gli uni con gli altri, finalmente possiamo vivere nella libertà e nella pace dei figli di Dio. Nella vibrante attesa del ritorno del Signore...


Note:

[1] Barth Markus, Riscopriamo la Cena del Signore, (1990) Ed. Claudiana, cit. p. 14.
[2] Id. Ibid., cit. p. 16.
[3] Id. Ibid.
[4] Id. Ibid.
[5] Id. Ibid., cit. p. 18.
[6] Id. Ibid.
[7] Id. Ibid.
[8] Id. Ibid., cit. p. 23.
[9] Id. Ibid., cit. p. 24.
[10] Id. Ibid.
[11] Id. Ibid., cit. p. 55.
[12] Id. Ibid., cit. p. 60.
[13] Id. Ibid., cit. p. 62.
[14] Id. Ibid., cit. p. 69. 

[15] Id. Ibid., cit. p. 41
[16] Id. Ibid.
[17] Id. Ibid., cit. p. 42. 
[18] Didaché, Lettere di Ignazio di Antiochia, A Diogneto, (7a ed. 2013) Ed. Paoline, cit. p. 13.
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