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domenica 22 gennaio 2017

L'ubbidienza della fede fra gli stranieri

A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo.
Efesini 3:8 

La lettera ai Romani è senza dubbio la più importante opera teologica dell'apostolo Paolo giunta fino a noi. Proprio questa lettera diede l'impulso principale al nuovo orientamento teologico di Agostino, di Lutero e della riforma protestante, e dei moltissimi teologi che nel corso della storia del cristianesimo non hanno potuto evitare di essere profondamente toccati da questi insegnamenti così ricchi e vividi.1 Arrivando ai giorni nostri, negli ultimissimi anni del XX secolo, il teologo James D.G. Dunn seppe identificare con facilità il "posto migliore in cui collocarsi per iniziare a dialogare con Paolo", identificando questo posto esattamente con la lettera ai Romani2, utilizzando di conseguenza proprio questa lettera come filo conduttore per il suo libro sulla teologia paolina. Romani è un testo fondamentale per comprendere il pensiero di Paolo, e dall'enorme contributo alla ricchezza del Nuovo Testamento nel suo insieme.

Questa epistola è stata scritta in un momento molto particolare della vita dell'apostolo: dopo aver evangelizzato ampiamente i territori bagnati dal Mar Egeo, e in attesa di raggiungere in un futuro incerto gli "estremi confini della terra", ossia la Spagna. Proprio a metà tra questo passato e i desideri circa le missioni successive - molto probabilmente durante l'inverno tra il 57 e il 58 d.C. a Corinto - Paolo decide di scrivere una sintesi personale della sua esperienza cristiana e di inviarla ai credenti che abitano a Roma, che ancora non conosce e che tratta di conseguenza con tutto il rispetto che merita il "terreno altrui"3, avendo comunque una certa autorità su di loro in quanto apostolo dei gentili.
 
Da un punto di vista letterario, avvicinandoci al testo dal suo inizio, possiamo riconoscere chiaramente un'introduzione epistolare costituita da tre momenti distinti:
  • Indirizzo (1:1-7)
  • Esordio (1:8-15)
  • Proposizione generale (1:16,17)4
Proprio l'indirizzo, ossia i primi sette versetti della lettera, vuole essere l'oggetto del presente approfondimento, nel desiderio di comprendere al meglio queste prime parole così profonde e già piene di grande significato

Dopo queste premesse, e dopo aver definito l'intento dell'articolo, possiamo accostarci ora al testo in sé, riflettendo su ogni parola, per poter assimilare più dettagli possibili e apprezzare fino in fondo questa apertura di così ampio respiro:

Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio, che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale abbiamo ricevuto grazia e apostolato perché si ottenga l'ubbidienza della fede fra tutti gli stranieri, per il suo nome - fra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo - a quanti sono in Roma, amati da Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo. 
Romani 1:1-7

Il teologo Hans Küng, riconosce in queste parole una vera e propria confessione di fede, intesa non come un insieme di dogmi con motivazioni giuridiche (nel senso moderno del termine), ma come libera espressione della fede della comunità cristiana.5 Di certo, questo è l'indirizzo più solenne di tutte le lettere dell'apostolo Paolo, la cui prima proposizione viene ampliata fino a includere quasi tutti gli elementi fondamentali della predicazione cristiana primitiva.6 Paolo si presenta da solo, e lo fa con tre descrizioni: "servo di Cristo Gesù", "chiamato a essere apostolo", e "messo a parte per il vangelo di Dio". La primissima descrizione è quindi quella di servo, nel greco originale reso con il termine doulos. Nell'ellenismo questa parola ha quasi esclusivamente un senso degradante e dispregiativo, a causa dell'alta valutazione della libertà personale.7 Nell'Antico Testamento e nel giudaismo, però, l'uomo è consapevole di essere totalmente dipendente da Dio, ed essere scelti da lui per poterlo servire è, al contrario, un onore.8 Così è anche nell'utilizzo dell'apostolo Paolo, laddove tutti i credenti, essendo stati sottratti alle potenze schiavizzanti del peccato, della legge, della morte, del cosmo, sono resi figli di Dio: non con una libertà autonoma o dissoluta ma al servizio di Dio e di Cristo.9 Per l'appunto suoi servitori. Come prima presentazione quindi, Paolo si descrive come riscattato dalla schiavitù del peccato, per essere libero di servire Cristo. Ogni altra libertà di azione, o missione specifica è possibile proprio grazie a questa situazione spirituale. Il fatto di essere stato liberato dal potere delle tenebre per essere trasportato nel regno del Figlio (Col. 1:13), permette infatti di ricevere la propria chiamata - klētos - specifica, che nel caso di Paolo è quella relativa al ministero di apostolo (apostolos). Questa chiamata nelle lettere paoline viene contraddistinta dai seguenti elementi: la libera decisione di Dio per grazia, l'elezione (scelta) del chiamato a partire dal primo istante della sua esistenza (cfr. Ger. 1:5, Is. 49, 1 e 5), la vocazione per mezzo della grazia di Dio, la rivelazione di Gesù come Figlio di Dio e l'incarico storico-salvifico.10 Dio quindi decide liberamente in virtù della sua grazia di scegliere singole persone per illuminarle con la rivelazione di Gesù Cristo come Figlio di Dio, e chiamarle al servizio nel suo regno. La chiamata di Paolo ha un'origine e un'autorità divina, derivante non da una investitura celebrata da uomini ma da un intervento diretto di Dio, come descritto nel primo capitolo della lettera ai Galati. La chiamata specifica è a essere apostolo. Questa parola in sè significa inviato, e Paolo con questo termine designa in senso proprio il suo compito di predicare il vangelo: come messaggero e rappresentante del Signore crocifisso e risorto, egli è autorizzato a portare il vangelo alle comunità etnico-cristiane.11 Paolo chiama anche altre persone apostoli; aderisce al loro modo d'intendere l'apostolo e su questa base sottolinea la particolarità che gli spetta.12 La concezione dell'invio ha origine molto probabilmente nei profeti veterotestamentari, per poi svilupparsi nel cristianesimo, oltre che nel giudaismo postbiblico con il termine saliah.13 Paolo non è più schiavo del peccato ma è servo di Cristo Gesù, egli è stato chiamato da Dio per essere apostolo: inviato con lo scopo di predicare ai gentili e radunarli nel regno del Figlio. E' stato messo da parte per il vangelo di Dio. Messo da parte, e quindi (pre)scelto sin dal seno di sua madre per conoscere e predicare il vangelo di Dio (Gal. 1:15). Questo Paolo, scrive ai credenti che sono nell'importante capitale dell'Impero romano. 

Come apprendiamo dalle parole seguenti, vangelo di Dio non è una novità assoluta. Esso infatti era già stato promesso nell'Antico Testamento, e in particolare negli scritti dei profeti. La nuova economia non spunta nel nulla, ma affonda le sue radici in profondità in quella antica, costituendone il suo naturale (e spirituale) sviluppo. Le più antiche confessioni di fede che troviamo nel Nuovo Testamento sottolineano il fatto che tanto la morte quanto la risurrezione di Cristo avvennero secondo le Scritture (p. es: 1 Cor. 15:3,4), ed è possibile constatare questa stretta correlazione proprio con la lettura dei quattro vangeli canonici, e la loro associazione delle singole profezie antiche con le azioni e le parole di Gesù, culminate appunto con la sua crocifissione e con la sua risurrezione. L'Antico Testamento non è separato dal vangelo, non è separato dal Nuovo Testamento, e non è separato dalla Chiesa. Ma, al contrario, è compiuto nel vangelo, nel Nuovo Testamento, e nella Chiesa composta da Giudei e gentili (Mt. 5:17, Gv. 10:16). E' compiuto nel Figlio di Dio, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, e dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti. Questa dichiarazione cristologica ben sintetizza la natura umana di Gesù, discendente del re Davide e quindi "venuto realmente in carne" e non soltanto con apparenza umana (2 Gv. 7). Nato con dinastia regale, e quindi con il pieno diritto alla sacra unzione di messia.14 Ma anche dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito Santo mediante la risurrezione dei morti. Questa "dichiarazione", non può significare "predestinazione" (come affermavano Agostino e Pelagio) perché il termine originale è horizō e non proorízō, motivo per cui i commentatori moderni preferiscono tradurre con "designato, stabilito, costituito".15 Gesù, oltre ad essere nato come discendente di Davide, è anche stato costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito e attraverso l'evento della risurrezione dai morti. E' da notare che nel pensiero di Paolo Gesù era Figlio di Dio anche prima della sua incarnazione, morte e risurrezione16, ma questo evento ha decretato la costituzione di Figlio di Dio per l'appunto con potenza e secondo lo Spirito, ricevendo dal Padre piena autorità sopra ogni principato, potenza, signoria del mondo presente e futuro (Ef. 1:21). In Paolo, l'epiteto "Figlio di Dio" è usato nel contesto della "intronizzazione messianica", nei termini espressi nei Salmi 2 e 110, così come possiamo vedere anche in 1 Cor. 15:28 e 1 Ts. 1:9.17 Pienamente Figlio di Davide e Figlio di Dio, dunque, morto e risorto, riconosciuto dal Concilio di Calcedonia quattro secoli dopo la stesura della lettera ai Romani come un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. Gesù Cristo, nostro Signore, autore di grazia e dell'apostolato. Grazia e apostolato che per Paolo hanno come scopo l'ubbidienza della fede fra tutti gli stranieri.
  
Questo infatti era lo scopo del ministero apostolico di Paolo, e questo è lo stesso scopo del ministero di innumerevoli servitori contemporanei e successivi a lui che sono entrati in questa fatica con lo stesso proposito: servire il Signore nel portare le persone di origine non ebraica all'ubbidienza della fede in Cristo Gesù. Alcuni apostoli sono stati chiamati per predicare il vangelo tra i giudei (Gal. 2:7), mentre altri - come Paolo - sono stati chiamati per predicare tra i gentili (Gal. 2:8). Un obiettivo enorme, quello di raggiungere con il vangelo le estremità della terra, di testimoniare ed evangelizzare ogni essere umano affinché credendo in Cristo possa ottenere salvezza nel suo nome. "Ottenere l'ubbidienza della fede fra gli stranieri per il suo nome", è un traguardo deciso da Dio e per il quale egli continua a chiamare nuovi servitori anche al giorno d'oggi, equipaggiandoli con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione (1 Ts. 1:5), per portare sempre più avanti, persona dopo persona, la salvezza del regno di Dio. Una mèta decretata dal Padre (Sl. 2:8), resa possibile dal Figlio (Mt. 28:18-20) e promossa dallo Spirito (2 Ts. 2:13). Il successo di questa missione non risiede nella capacità umana, ma nella volontà di Dio. Non risiede nelle parole, ma risiede nella potenza dello Spirito. L'unica cosa richiesta quindi, è solo ubbidire alla chiamata e servire Cristo, il Signore. Fare da ambasciatori per suo conto supplicando: siate riconciliati con Dio! (2 Cor. 5:20). Nel Nuovo Testamento leggiamo i molti riscontri positivi a questo annuncio, ma anche le molte persecuzioni perpetrate da chi ha respinto con odio il vangelo di Dio. Così è anche al giorno d'oggi. Moltissime persone sperimentano il ravvedimento e la fede in Cristo, ma molte altre tormentano i cristiani in ogni parte del mondo. Questo non deve stupire, perché è lo stato proprio dei discepoli del Signore: perseguitati ma non abbandonati, atterrati ma non uccisi, tribolati in ogni maniera ma non portati all'estremo, perplessi ma non disperati, esposti alla morte per amor di Gesù affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella propria carne mortale (2 Cor. 4:8-11).

Tra "gli stranieri", c'erano anche i credenti di Roma di metà del I secolo, amati da Dio, e chiamati santi. Coloro ai quali è stata indirizzata questa lettera di Paolo di Tarso, servo di Cristo e apostolo dei gentili. Coloro che per primi lessero queste parole, custodendole e condividendole con le altre comunità e con le altre generazioni.
 
CONCLUSIONE

Tra le lettere dell'apostolo Paolo presenti nel canone neotestamentario, quella ai Romani è senz'altro la più elaborata, e quella di maggiore influenza nel pensiero teologico dei secoli successivi. Pur non raccogliendo tutti gli argomenti sui quali l'apostolo si è pronunciato, questo documento definisce un'ottima sintesi del suo pensiero, e una poderosa difesa della dottrina della salvezza per grazia mediante la fede. Anche solo la prima frase di apertura della lettera risulta così densa di insegnamenti da meritare tutta l'attenzione del lettore, e di ogni esegeta antico e moderno. La consapevolezza dell'incarico di Paolo è nitida e di esempio per ogni ministro cristiano. I concetti di servo, apostolo, chiamato, messo a parte, offrono una chiara guida per lo sviluppo del pensiero di ogni credente, e la formazione di una più ampia comprensione ecclesiologica. I titoli di Figlio di Davide (nato dalla stirpe di Davide) e Figlio di Dio con potenza, rivelano in modo speciale la natura e l'identità del Signore Gesù, offrendo una antica testimonianza della dottrina cristologica apostolica. Lo scopo dell'apostolato di Paolo infine, ossia l'ubbidienza della fede fra gli stranieri, esplicita la missione che la Chiesa ha perseguito in due millenni di presenza storica, trovando nuovo vigore per molte sue denominazioni proprio nell'attuale XXI secolo. In un'unica proposizione, troviamo in nuce l'essenza e la missione cristiana: il passato, il presente e il futuro di ogni credente che si fa trovare fedele nel suo servizio, nella viva attesa del ritorno del Signore.  



Note:

[1] Jordi Sanchez Bosh, Scritti paolini, Paideia, p. 232.
[2] James D.G. Dunn, La teologia dell'apostolo Paolo, Paideia, p. 52.
[3] J. S. Bosh, Scritti paolini, Paideia, pp. 235-237.
[4] Id. Ibid. p. 239. 
[5] Hans Küng, Cristianesimo (Terza edizione BUR Saggi, 2004), p. 58.
[6] Joseph A. Fitzmyer, Grande commentario biblico Queriniana, 1974, p. 1207. 
[7] Horst Balz, Gerhard Schneider, Dizionario Esegetico Del Nuovo Testamento, Paideia, I 928.
[8] Id. Ibid. I 929
[9] Id. Ibid. I 934.  
[10] Id. Ibid. I 1888,1889
[11] Id. Ibid. I 380. 
[12] Id. Ibid. I 381.
[13] Id. Ibid. I 382.    
[14] Joseph A. Fitzmyer, Grande commentario biblico Queriniana, 1974, p. 1207.  
[15] Id. Ibid.  
[16] Gerhard Schneider, Cristologia del Nuovo Testamento, Paideia, p. 90.
[17] Id. Ibid. p. 91.
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